Riprendiamoci il terzo tempo – il femminismo in Europa
Articolo di Barbara Romagnoli preso dal Corriere della Sera 27 ora-Il rito si ripete ogni anno e da tempo le femministe invitano a riflettere sul senso profondo della giornata internazionale delle donne, un otto marzo che oscilla spesso fra folklore e retorica, e sempre più si svuota non solo delle storie e delle battaglie che la data ricorda ma anche di contenuti efficaci da trasmettere alle nuove generazioni. È uno dei motivi per cui i femminismi sono stati al centro dell’iniziativa dal titolo International Women’s Day: Feminist Left Struggles in Europe, voluta al Parlamento di Bruxelles il 2 e 3 marzo scorsi dalle europarlamentari Gue/Ngl impegnate nella commissione Femm, in particolare Eleonora Forenza e Malin Björk.
Un convegno e un workshop per dibattere di diritti e uguaglianza di genere, in tutti gli ambiti della nostra vita, con donne delle istituzioni e delegazioni di attiviste ed esperte dai diversi paesi europei. Ad aprire i lavori Gabriele Zimmer, presidente del Gruppo della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde [Gue/Ngl], che non ha esitato ad affermare che stiamo vivendo un periodo complessivo d’involuzione per i diritti delle donne in tutta Europa, perché «in un contesto generale di precarietà crescente, le donne senza dubbio pagano il prezzo più alto». Le ha fatto subito eco Kostadinka Kuneva, europarlamentare greca di Syriza di origine bulgara ed ex sindacalista. Sul suo corpo porta i segni delle sue battaglie: nel 2008 venne avvicinata da un gruppo di sconosciuti sotto casa, le gettarono vetriolo sul viso e la costrinsero a ingoiare dell’acido, azione efferata per fermare il suo lavoro. «Dobbiamo essere unite e più forti degli uomini» – ha affermato durante il suo intervento – perché la situazione è peggiorata non solo per le donne europee». Kuneva ha infatti da poco presentato come relatrice un importante relazione, attualmente in discussione all’europarlamento, sui diritti dei lavoratori e delle lavoratrici domestiche, convinta che se «regoliamo la professione saremo in grado anche di ridurre il traffico e l’abuso di donne».
Il pieno riconoscimento economico del lavoro di cura e domestico, di fatto appaltato alle donne migranti, è un tema molto attuale che intreccia, come ha ricordato Sabrina Marchetti, ricercatrice all’Istituto Universitario Europeo, sia le tematiche del lavoro che quelle di genere: «C’è una enorme eterogeneità delle politiche nei 28 paesi dell’Unione riguardo il lavoro domestico e in particolare per il lavoro migrante in questo settore. È necessario intervenire in quei paesi in cui le migranti non hanno accesso a permessi di soggiorno o non sono libere di cambiare datore di lavoro».
Anche perché, come ha ben sottolineato Fátima Messias, rappresentante della confederazione intersindacale dei lavoratori e lavoratrici portoghesi, non solo c’è un tentativo in atto di fermare un po’ ovunque l’emancipazione economica delle donne per riportarle dentro casa, come mogli e madri, ma soprattutto l’uguaglianza scritta nelle leggi non corrisponde alla vita reale, dal Portogallo alla Repubblica Ceca. È una delle conseguenze della politica dell’austerità imposta dal neoliberismo e che sta producendo enormi danni. Non ha usato mezzi termini Katerina Bougioukou, segretaria per l’uguaglianza di genere dei sindacati confederali greci: «Oggi sono qui come rappresentante di un paese in ostaggio del debito – ha dichiarato Bougioukou – e i poteri internazionali che controllano le politiche nel nostro paese hanno fatto aumentare le discriminazioni dirette e indirette sulle donne, le prime a perdere lavoro e a subire violenze e discriminazioni di vario genere (dal mobbing nei luoghi di lavoro alla differenza salariale). Non solo, c’è resistenza rispetto alle proposte e alle posizioni femministe perché in molti ritengono che la parità fra i sessi sia stata raggiunta. Non è così e dobbiamo tutte insieme rivendicare il futuro che ci spetta e che ci meritiamo».
Non è retorica, se poco dopo la rappresentante di Cipro ha raccontato che non hanno più le risorse per i centri di salute dove prevenire e curare il tumore al seno o se, come ricordato da Rosa San Segundo, professoressa all’Università di Madrid, la Spagna sebbene sia da poco entrata “nella modernità” è tornata indietro sui diritti sessuali e riproduttivi delle donne con una altalena di leggi che di fatto hanno decretato le donne come incapaci di intendere e volere, basti pensare all’ultima riforma sull’aborto.
Tema su cui Caterina Botti, docente di Bioetica a la Sapienza di Roma, esprime viva preoccupazione perché «l’aborto non va considerato come un diritto ma come uno spazio di responsabilità femminile che non riguarda la singola donna. È una questione collettiva che investe le generazioni future». E non si può non ricordare quanto sta accadendo in Italia, con l’aumento a carico delle donne della sanzione per l’aborto clandestino in un momento in cui l’obiezione di coscienza dei medici è all’ordine del giorno.
È proprio sui temi del corpo, questione delicata e complessa, che il dibattito si è acceso. Molto diverse le posizioni che riguardano i diritti per le sex workers, la gestazione per altre/i e il ruolo delle donne nella società. Nel corso del dibattito più volte si è fatto riferimento alla “funzione materna” e in molte hanno sgranato gli occhi, convinte che sia arrivato il momento di dire chiaro e forte che anche le donne che non vogliono o non possono avere figli debbano avere piena cittadinanza. Così come si dovrebbe riflettere di più, ragionando di maternità surrogata, sulla capacità di scelta delle singole donne, o smettono in quel caso di essere soggetti morali autonomi? Sara Picchi, attivista del centro antiviolenza Una stanza tutta per sé, ha invitato a sospendere il giudizio sulle altre, a porre attenzione sulla dimensione dell’ascolto per evitare facili semplificazioni.
Sono questioni certamente complesse e connesse alla necessità del riconoscersi fra diverse: l’unica donna nera intervenuta alla due giorni ha posto il problema delle donne di seconda generazione che hanno desideri e bisogni differenti sia dalle donne bianche europee che dalle migranti in transito. Con poche parole ha ricordato alle presenti che i femminismi non possono non tener conto dell’intersezione fra classe, etnia, cultura e dei rapporti di forza in essere.
Ha raccolto lo stimolo Malin Björk, europarlamentare svedese, che ha affermato: «Come sinistra europea pensiamo che anche decidere sul corpo sia un rapporto di potere, se non ce lo danno, ce lo prendiamo». Ma non è così facile, non è così per tutte le donne, come ha ben espresso Serena Fiorletta di Aidos, associazione italiana donne per lo sviluppo, intervenendo sulle questioni della salute: «Come ong nata dalle pratiche femministe degli anni Settanta siamo convinte che il modello del consultorio italiano possa essere realizzato anche in altre culture, tenendo conto dei differenti contesti culturali e avendo presente che il benessere non è solo assenza di malattie ma coinvolge tutti gli ambiti della vita di una persona. E allora dovremmo chiederci, ad esempio, perché non si tiene conto della salute sessuale e riproduttiva di 26 milioni di donne migranti, fra i 16 e i 49 anni, tenute nell’emergenza continua e dentro i loro kit nei campi profughi non sono contemplati gli assorbenti, come se le mestruazioni si fermassero nella fuga da guerre e bombardamenti».
Sono storie che non possono essere taciute, così come fa effetto sentire la delegata tedesca raccontare di marce per la vita anche a Berlino, dove in settemila hanno sfilato contro l’aborto o di quanto hanno faticato come femministe tedesche a evitare che i fatti di Colonia venissero strumentalizzati contro i diritti delle donne.
A ragione, Bakartxo Ruiz Jaso, rappresentante del Parlamento della regione autonoma della Navarra, si chiede perché non è stata ancora ratificata da tutti gli stati europei la Convenzione di Istanbul che permetterebbe di avere uno strumento forte contro le discriminazioni. E aiuterebbe certamente anche a sostenere l’autonomia e il protagonismo delle donne in Europa in una «ottica di cambiamento di tutta la comunità, possibile solo se vengono accolte le pratiche femministe in tutti gli ambiti, non solo in quello che viene considerato lo specifico femminile» ha ricordato Eleonora Forenza, europarlamentare italiana della Lista Tsipras.
Non si può non vedere il nesso fra cittadinanza europea e autodeterminazione, eppure è così e forse la miopia nasce da quella che Lilian Halls-French di Ife-Efi, Iniziativa femminista euromediterranea, ha definito la “tolleranza sociale” con cui sono accettate le discriminazioni contro le donne, si dà per scontato che sia così e, nonostante viviamo in società sulla carta laiche e democratiche, assistiamo alla continua interferenza delle religioni. Per questo, insiste Malin Björk, è necessario lavorare dentro e fuori i parlamenti, continuare a fare pressione ovunque siamo affinché non siano altri a decidere per noi.
Non a caso, Mayra Moro-Coco, attivista femminista ed esperta di questioni di genere invitata da Podemos, ha posto una delle questioni fondamentali: «Chi e quando decide che siamo cittadine? In che modo la creatività femminista può lavorare sul divario fra norme e realtà?». Fra le possibili risposte c’è quella che arriva da Cesarina Damiani, intervenuta a nome della Casa delle donne di Milano, che ha presentato l’appello Muri e recinti: non è questa l’Europa in cui vogliamo vivere, firmato da oltre 50 associazioni e reti da tutta Europa fra cui Donne nella Crisi presente anche al seminario di Bruxelles, per affermare la volontà di molte donne di non essere complici di politiche xenofobe e razziste. O anche la proposta di Viola Lo Moro, del collettivo Femministe Nove, che invita, con una ottima metafora mutuata dal rugby, a ripensare e riprenderci come donne il nostro terzo tempo, oltre quello della produzione e della riproduzione, entrambi definiti dagli uomini. Può essere un inizio per rimettere i corpi al centro, avere una democrazia inclusiva e reale e per vivere nel nostro tempo e nelle nostre città con uno sguardo rivolto all’altra Europa che vorremmo.
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