2018 – Che sia l’anno per trovare la strada di relazioni più consapevoli e più libere – Che sia l’anno dei luoghi delle donne
Il bisogno di identificazione e di appartenenza è la forma prima, originaria, che prende il rapporto con l’altro, nostalgia di un luogo “caldo” e protetto, quale si configura nella memoria degli esseri umani la dimora prenatale. Ma paradossalmente è stato proprio il corpo con cui si è stati tutt’uno, in una appartenenza intima, prossima all’indistinzione, a essere messo al bando dalla società storica degli uomini, in quanto portatore di una diversità temibile. È come se tutti i legami successivi che l’umanità ha creato per garantirsi la sopravvivenza portassero il segno di quel taglio iniziale, offensivo e difensivo, di quelle barriere messe a riparo da sconfinamenti pericolosi.
La famiglia, considerata la cellula prima del vivere sociale, ha subìto in realtà il lungo esilio che è toccato alla donna, alla sessualità e a tutto ciò che continuiamo a considerare “vita intima”. Nel corso dei secoli, infinite altre forme di aggregazione, sostenute da vincoli reali o immaginari di parentela, somiglianza, affinità, interessi condivisi, sono venute affermando la loro “differenza” su analoghe contrapposizioni: interno/esterno, amico/nemico, bene/male, civile/barbaro, ecc.
Oggi, di fronte a una mobilità sociale finora sconosciuta, fatta di rapporti più fluidi, meno gerarchizzati, di insicurezze e rischi permanenti, queste configurazioni antiche sembrano trovare nuovo vigore, ma, a guardare bene, hanno il volto spettrale di moribondi che si vendicano dei sopravvissuti.
Sotto l’urto della precarietà dilagante, di un tempo che si restringe fino a coincidere con il “qui e ora”, l’appartenenza non scompare ma assomiglia sempre di più a quel luogo-non luogo della nascita, dove le acque si mescolano, dove i confini tra sé e l’altro sono quasi inesistenti, e le diversità inafferrabili. Là dove i legami – con un paese, una cultura, una storia – sembrano evaporare, si accampa un individuo più consapevole della sua singolarità, ma anche più prossimo a quella moltitudine di simili che la globalizzazione fa trovare sul suo cammino, reale o mediatico.
L’estrema solitudine in un pieno di presenze è, paradossalmente, anche il modo con cui i più acuti osservatori del nostro tempo descrivono i “templi del consumo”, i centri commerciali: “un pezzo di spazio galleggiante”, “purificato”, dove “le differenze interne sono addomesticate, igienizzate, garantite come prive di ingredienti pericolosi”.
Luoghi-non luoghi, differenze che si moltiplicano e si sovrappongono come in un caleidoscopio, senza entrare in urto tra loro, contaminazioni che non intaccano il senso della propria unicità, sono ormai entrati nell’esperienza quotidiana come una seconda natura. Nessuno fa più caso all’orchestrazione di voci, umori, dettagli di storie private che infestano gli autobus affollati delle città, o che rimbalzano da un marciapiede all’altro, da quando sono in uso i telefonini. Nessuno è più nel luogo dov’è, nessuno parla più a chi ha di fronte, nessuno pensa più di avere beni in comune con altri da difendere. Eppure, in quelle “intimità” portate fuori dalle case, dalle famiglie, dalle coppie, dalla cerchia ristretta degli amici, gridate nello spazio pubblico da cui sono state per millenni escluse, ognuno, se avesse voglia di prestare ascolto, potrebbe leggere passioni, gioie, sofferenze, che sono dell’umanità, prima che di questa o quella particolare cultura.
Per un imprevisto capovolgimento, oggi sembra essere il “privato”, sia pure nelle rappresentazioni deformanti della pubblicità e dello spettacolo, a disegnare a grandi linee nuove forme di identificazione e di appartenenza. “Condividere intimità”, ha detto Richard Sennett, è forse l’ultimo tentativo rimasto di creare momenti comunitari, per quanto fragili come “grucce” a cui temporaneamente “molti individui solitari appendono le loro solitarie paure individuali”.
Ma in questo straripamento di “confessioni” nello spazio pubblico, così come nella corrente opposta di normative che vengono dall’esterno a improntare le scelte più personali, non si può non vedere anche la faticosa ricerca di nuovi legami, tra individuo e collettività, tra sentimenti e ragioni, tra il differire e il somigliare. I corpi, e le vicende che li attraversano più da vicino, pur essendo da sempre i luoghi primi dell’incontro con l’altro, “preistoria” di tutte le appartenenze che la civiltà ha conosciuto, sembrano trovare soltanto ora una qualche forma di cittadinanza.
Può dispiacere che la deriva intimista, viscerale, profusa dalla televisione e dai social network avvenga nella forma ambigua e molto poco sprivatizzante del voyeurismo e dell’esibizione, ma è difficile non accorgersi che tra le stanze chiuse di milioni di spettatori solitari passa una domanda largamente condivisa di conoscenza, legata alle esperienze essenziali della vita.
La “voglia di comunità” riparte dalla “vita messa a nudo”, sia essa la spinta solidaristica ad “accasare” le masse degli apolidi, profughi e migranti, che dilagano ormai in ogni parte del pianeta, sia, al contrario, il ripiegamento narcisistico di individualità disposte a violare la propria privacy per tessere nuove reti sociali.
Di queste aggregazioni, fatte di prossimità e lontananza, persone reali e virtualità, protagonista indiscusso è il cellulare. Diventato indispensabile, sia per i messaggi d’amore che di lavoro, le due potenze che si sono fatte a lungo la guerra, la scatola magica che sta nel palmo di una mano sembra fatta per tenere insieme altri binomi in apparenza inconciliabili: la dipendenza e la libertà, la stanzialità e il viaggio, il distacco e il modo per essere sempre reperibili.
Forse, come nel celebre racconto freudiano del “bambino col rocchetto”, gli individui avevano bisogno di gettare lontano legami ingombranti, rischiare la solitudine e l’indifferenza, per trovare la strada di relazioni più consapevoli e più libere.