I campi dei Rom e dei Sinti: ghetti di segregazione razziale
Abbiamo ricevuto la segnalazione dell’articolo di Marco Brazzoduro di ieri, 16 marzo 2016, su Zeroviolenza e volentieri pubblichiamo.
Esiste un luogo oscuro, una ferita aperta, un disagio profondo nella coscienza civile di Roma. Mi riferisco alla condizione di discriminazione, emarginazione ed esclusione cui è confinata la maggioranza di rom e sinti.
Le condizioni di vita di queste comunità sono la prova lampante della pertinace operatività del meccanismo del capro espiatorio.
In questo Roma non si differenzia da altre città italiane come l’Italia non si differenzia dal resto d’Europa dove la discriminazione dei rom e sinti è dilagante.
Non credo che questo possa assolverci come cittadini romani. I principi dell’accoglienza e della solidarietà nei confronti dei più bisognosi sono un segno ineludibile di civiltà al quale non si può derogare.
A Roma vivono circa 20.000 persone appartenenti alla articolata galassia di questa minoranza etnica. La maggioranza vive in casa ed è integrata nel tessuto socioeconomico della città. Poco più di 7000, corrispondenti a un misero 0,23% della popolazione romana, è accolto – si fa per dire – in campi nomadi alcuni dei quali rinominati eufemisticamente villaggi della solidarietà, nome che non può nascondere la realtà di degrado e abbandono in cui sono stati lasciati a partire dalla giunta Marino per proseguire e peggiorare sotto la gestione del commissario Tronca.
Questo non significa che le giunte precedenti, da Rutelli a Veltroni ad Alemanno, brillassero per spirito di accoglienza ed integrazione. I campi nomadi o villaggi, che dir si voglia, sono di per sé inaccettabili o accettabili solo come misure temporanee per terremotati, alluvionati o comunque per provvedere temporaneamente a situazioni di emergenza.
In realtà il governo Berlusconi nel 2008 varò tre decreti per affrontare l’emergenza dei “campi nomadi” sotto il segno di misure repressive e ghettizzanti. Quei decreti furono poi annullati dal Consiglio di Stato e dalla Cassazione che decretarono la insussistenza del presupposto dell’emergenza. Venne così a cadere il “Piano Nomadi” della giunta Alemanno che prevedeva la riduzione dei campi a 13 con il concentramento di comunità anche ostili tra di loro.
Ma la stessa locuzione Piano Nomadi dimostra l’incompetenza e l’ignoranza di chi quel piano ha redatto e voluto. Infatti i rom e sinti, a cui il piano si riferiva, non sono più nomadi da generazioni sia che si tratti di individui di cittadinanza italiana – presenti sul nostro territorio da sei secoli – sia che si tratti dei rom migrati dalle repubbliche in cui si è frantumata la Jugoslavia o dalla Romania dove già vivevano in case sia pure poverissime.
Che la modalità abitativa di rom e sinti fosse quella del campo sosta è uno dei tanti pregiudizi cui quelle comunità sono assoggettate e che sfocia troppo spesso in aperte discriminazioni se non ad episodi di vero e proprio razzismo.
L’Unione Europea nel 2011 emanò una risoluzione in cui invitava gli allora 27 stati aderenti (ora, dopo l’aggiunta della Croazia, sono 28) a varare una strategia nazionale d’inclusione di rom, sinti e camminanti. Il governo italiano l’ha varata nel febbraio del 2012.
E’ un documento di 100 pagine in cui, alle dettagliate analisi dei vari aspetti in cui si articola la questione, fanno seguito ragionevoli proposte operative. Tra queste per quanto riguarda il tema dell’habitat si sottolinea la necessità del “superamento dei campi” e si offrono indicazione del come. Sono trascorsi quattro anni e a Roma non è successo nulla. Un numero non indifferente di Rom e sinti continuano a vivere in condizioni inaccettabili per un paese civile.
I campi sono veri e propri ghetti di segregazione razziale come anche dichiarato in una sentenza del tribunale civile di Roma a proposito del campo de La Barbuta.
Per quanto riguarda le necessità abitative dei rom spesso ci si sente obiettare “ma non ci sono le case nemmeno per gli italiani !”. Ecco vorrei contestare dati alla mano questa falsa convinzione alimentata ad arte da xenofobi e razzisti. Secondo i dati dell’ultimo censimento della popolazione (2011), in Italia c’erano – ma da allora sono sicuramente aumentati – 4,6 milioni di alloggi inoccupati. Ci potrebbero stare 20 milioni di persone ovvero tutti gli abitanti della Svizzera e dell’Austria messi insieme.
Insomma il patrimonio edilizio italiano è vasto, addirittura sovrabbondante. Certo la sua distribuzione è marcatamente difettosa con macroscopici squilibri. Ma perché questa colpevole inerzia?
Perché non si fa nulla per migliorarne la distribuzione a vantaggio di chi è in situazione di forte disagio ed è magari costretto alle occupazioni abusive?
Il prefetto Tronca, commissario per la città di Roma fino alle prossime elezioni del 12 giugno, si sta segnalando per un’intensa opera di repressione di occupazioni e di insediamenti abusivi nel nome del ripristino della legalità. Naturalmente non abbiamo nulla contro la legalità: occupare un edificio abbandonato – anche se l’implicito spreco, quando esistono migliaia di famiglie povere che non riescono ad accedere al mercato della compravendita o dell’affitto, fa gridare allo scandalo – è illegale perché nel nostro ordinamento giuridico in nome della sacra proprietà è lecito conservare un edificio inutilizzato e abbandonato.
Ma esiste una legalità superiore – se così si può dire – la legalità dei diritti umani la cui carta l’Italia ha firmato come ha firmato la Carta Sociale Europea revisionata che all’art 31 riconosce il diritto all’abitazione e impegna gli Stati a eliminare gradualmente lo stato di “senza tetto”.
Viceversa la prassi corrente che apertamente infrange quegli obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia, è quella degli sgomberi forzati con i quali i senza tetto aumentano. Tra l’altro queste operazioni appaiono del tutto insensate visto che gli sgomberati – visto che non si può eliminarli fisicamente – da qualche parte debbono pur andare e costruirsi un tetto sopra la testa. Quindi andranno inevitabilmente a costruirsi un nuovo insediamento spontaneo/abusivo o ad occupare un nuovo stabile abbandonato (e a Roma ne esistono centinaia).
In merito agli sgomberi forzati il Commissario ai Diritti umani del consiglio d’Europa ha recentissamamente (febbraio scorso) inviato una lettera al presidente del Consiglio dei Ministri Renzi in cui lamentava apertamente la violazione dell’Italia della normativa europea sugli sgomberi che, quando necessari, comunque debbono preludere a una sistemazione alloggiativa dignitosa.
In queste settimane è anche in corso una severa repressione nei campi rom anche autorizzati, repressione che si esplica attraverso controlli sistematici dei documenti, dei titoli di proprietà degli automezzi ecc. Addirittura si pretende l’esibizione dello scontrino da chi torna al campo con i sacchetti della spesa (il presupposto è che si tratti di cibi rubati). I furgoni vengono sequestrati dimenticando che costituiscono uno strumento indispensabile di lavoro. A chi è privo di documenti (permesso di soggiorno e/o passaporto) viene irrogato un decreto di espulsione: entro 5 giorni deve lasciare l’Italia.
Nella maggioranza dei casi chi riceve il decreto di espulsione non è espellibile perché apolide di fatto. Si tratta di persone nate in Italia e sempre vissute in Italia. Erroneamente si credono cittadini italiani ma secondo la legge italiana sulla cittadinanza che si ispira al principio dello ius sanguinis la cittadinanza dei nati in Italia è quella dei propri genitori.
Ma se i genitori stranieri non registrano il/la neonato/a nel proprio Paese il/la neonata è priva di cittadinanza, apolide appunto. Pertanto avviare una procedura di espulsione è insensato, è solo uno spreco di tempo e una vessazione per chi la subisce. Infatti dove dovrebbe essere espulso il malcapitato? Nessuno stato lo accetterebbe. Ma insomma non si potrebbero informare le questure di questa ovvietà e consentire loro di occuparsi di problemi veri?
Vorrei concludere questo articolo soffermandomi brevemente sull’aspetto cruciale della questione ovvero l’integrazione. E’ ben noto come rom e sinti sono soggetti a pregiudizi e discriminazioni diffuse che rendono il processo di integrazione assai accidentato. E’ quindi necessario un intervento, una serie di interventi, da parte delle istituzioni della società maggioritaria per favorire quel processo apprestandone le condizioni necessarie.
La chiave di tutto, a mio avviso, è il lavoro. Non accetto l’obiezione secondo la quale “non c’è lavoro nemmeno per gli italiani”, vista la dilagante disoccupazione. Affermo questo perché conosco i rom, frequentandoli quotidianamente. Le loro attività prevalenti per procacciarsi un reddito sono: il piccolo commercio nei mercatini e la compravendita dei metalli. Queste attività che gli italiani non praticano andrebbero potenziate e non, come oggi stupidamente avviene, contrastate. Per i mercatini negli anni passati ne sono esistiti un massimo di 4; oggi uno solo. Perché non aprirne uno per Municipio?
Il commercio dei rottami metallici, attività tipica dei rom, è soggetta da qualche anno a una normativa complessa che essi in gran parte non sono in grado di ottemperare per cui i furgoni gli vengono sequestrati e in più subiscono denunce penali. Perché non aiutarli a superare le difficoltà burocratiche con un apposito sportello? O si preferisce che messi con le spalle al muro vadano a rubare?
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