La politica della follia, l’economia della violenza
L’ambasciatore russo in Turchia viene ucciso da un attentatore turco, un camion si lancia sulla folla di un mercato di Natale a Berlino uccidendo e ferendo decine di persone. A Zurigo una sparatoria nei pressi di un centro islamico ferisce altre persone. Un video che chiama alla Jihad sottotitolato in perfetto italiano viene diffuso in rete…
Solo la violenza che arriva a pochi di noi ci colpisce, ci legittima a parlare come ha detto il neo Ministro degli Affari Esteri Alfano di “Spregevole attacco al cuore dell’Europa”. Da 5 anni perdura la sistematica distruzione della popolazione siriana che a seconda delle fonti ha causato sinora tra i 250.000 e i 450.000 morti, un sesto circa della popolazione complessiva. E’ sempre doveroso ricordare che l’esportazione della democrazia occidentale in Iraq è costata la morte a oltre 1 milione di civili iraqeni.Sono numeri talmente elevati e sproporzionati tra di loro che possono solo farci interrogare. Se non riusciamo a comprendere perchè tutto il mondo musulmano viva da vicino il dramma dell’immigrazione, dei morti nel Mediterraneo o quelli di Siria, dovremmo provare a immaginare che effetto ci farebbe se morisse un sesto della popolazione francese o inglese.
A muovere i fili più ravvicinati della politica dell’area sono tre uomini, Erdogan, Assad e Putin che si sono contraddistinti nel loro operato per crudeltà e violenza, interpretati con valutazioni e toni differenti da parte del mondo occidentale a seconda della opportunità politica ed economica del momento.
E’ la storia del sociale a dirci che la violenza dei potenti gode di uno statuto speciale a cui non possono ambire gli altri, con l’aggiunta che società sempre più mediatizzate come le nostre tendono ad accentuare il carattere familistico delle relazioni tra poteri e cittadini, nel bene e nel male.
Il pianeta Terra ha le stesse dimensioni che aveva molti anni fa, rimane un luogo vasto e sconfinato, ma le tecnologie mettono faccia a faccia le asimmetrie esistenziali dei singoli e dei popoli, generando confronti inaccettabili soprattutto laddove velocità e consumo erodono gli spazi sociali di traduzione e compensazione tra le differenze.
La dilatazione non più perimetrabile dello spazio da immaginare fa in realtà del mondo un posto chiuso ed è la più grande alleata della qualità mimetica della violenza, anche perchè annulla i processi di immedesimazione nell’altro. Così avviene che le decine di migliaia di migranti che raggiungono l’Europa e quelli che muoiono prima non riescano a farci riflettere se non in un’ottica inutilmente moralistica o protezionistica a fronte della realtà di un mondo che non avremo indietro come quello di prima.
Nessuna guerra di religione rende ostili l’un l’altro i potenti della terra piuttosto la qualità ancestrale della violenza che resta il più redditizio e duraturo processo economico mai concepito dalla storia.
Corre il rischio di essere fallimentare pensare a soluzioni politiche efficaci nell’immediato quando i drammi generati sono l’esito di processi economici globali che durano da decenni.
E per quanto il quadro non sia mai uniforme, una nuova forma di conflitto di classe su scala globale prima ancora che di provenienza geografica si unisce a un inedito conflitto generazionale prima ancora che religioso. Tanto il dato generazionale quanto il disagio o sofferenza psichica che accomuna molti degli attentatori come è risultato evidente negli ultimi mesi è un aspetto al quale raramente viene data una connotazione politica al pari di quella religiosa, eppure rimane il fatto che non è la religione ma una seria scissione o disturbo di base a rendere una persona o un potente capace di eliminarne molte altre in qualsiasi parte del mondo.
La sensazione è che una impennata di realismo politico e di fisicità dei conflitti sociali tornerà ad affacciarsi nei prossimi tempi.