60 anni dalla dichiarazione universale dei diritti umani: le promesse infrante
Presentato a Roma, il 27 maggio, dalla sezione italiana di Amnesty international il “Rapporto 2008 – La situazione dei diritti umani nel mondo” dedicato nel 60 anniversario della pubblicazione della Dichiarazione universale dei diritti umani ” a tutte le donne e a tutti gli uomini che con coraggio continuano a porsi in prima linea a difesa dei diritti umani”.{{“I leader mondiali devono porgere le proprie scuse}} per non aver realizzato la promessa di giustizia e uguaglianza contenuta nella Dichiarazione universale dei diritti umani (Dudu). Negli ultimi sei decenni molti governi hanno mostrato di privilegiare l’abuso di potere e interessi egoistici piuttosto che il rispetto dei diritti dei popoli che rappresentano.”
E’ questo l’asse attorno a cui ruota la presentazione da parte di Amnesty international – sezione Italia del rapporto – voluminoso come sempre – che documenta lo stato dei diritti umani, “fatti e cifre” in 150 paesi e Territori. In sessantanni. sono stati sicuramente fatti passi avanti “nello sviluppo di standard, sistemi e istituzioni sui diritti umani tanto a livello internazionale quanto regionale e nazionale” ma “nonostante questi sviluppi, l’ingiustizia, l’ineguaglianza e l’impunità sono ancora il tratto dominante del nostro mondo contemporaneo”.
Quello che preoccupa, fa scandalo è {{l’inversione di tendenza nella promozione dei diritti umani e sotto accusa sono i “governi del mondo”:}}
“Voltandosi indietro, ciò che stupisce maggiormente è l’unità d’intenti mostrata dagli Stati membri dell’Onu quando la Dudu venne adottata, senza neanche un voto di dissenso. Oggi, di fronte alle numerose e pressanti crisi dei diritti umani, i leader mondiali non hanno una visione comune su come affrontare le sfide contemporanee in un mondo che è sempre più in pericolo, insicuro e ineguale”. La perdita di autorevolezza della comunità internazionale è uno dei motivi di fondo. Vecchie e nuove potenze devono fare atti significativi per ristabilire un impegno comune e sanare le contraddizioni fra le “illegalità” ancora presenti nei loro stessi confini e la “tolleranza” che predicano all’estero.
Non restano nel vago {{Paolo Piobbati, presidente della sezione italiana, e Daniela Carboni, direttrice dell’Ufficio campagne e ricerca della Sezione italiana,}} nei loro interventi introduttivi al Rapporto.
“Il presidente Bush ha autorizzato la Cia a ricorrere ancora alla detenzione e agli interrogatori segreti, sebbene ciò si configuri come crimine internazionale di sparizione forzata. Centinaia di prigionieri a Guantánamo e Bagram, e migliaia in Iraq, sono rimasti per un altro anno (in molti casi, per il sesto anno consecutivo) in stato di detenzione senza accusa né processo”. La lotta al terrorismo deve tornare negli {{ambiti della legalità}} e questo è un compito a cui sarà chiamata anche la futura dirigenza Usa:”{{Chiudere Guantánamo}}; processare i detenuti in tribunali ordinari federali oppure rilasciarli; annullare l’Atto sulle commissioni militari e garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale dei diritti umani in tutte le operazioni militari e di sicurezza; rinunciare a usare prove estorte con metodi coercitivi e denunciare ogni forma di tortura o maltrattamento, a prescindere dal fine per cui verrà usata; elaborare una strategia praticabile per la pace e la sicurezza internazionali; negare il sostegno a leader autoritari e investire nelle istituzioni della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani, che favoriranno una stabilità di lungo termine… infine, essere pronta a porre fine all’isolamento degli Usa nel sistema internazionale dei diritti umani e impegnarsi costruttivamente all’interno del Consiglio Onu dei diritti umani”.
{{L’Unione europea (Ue)}} non viene risparmiata: “nel 2007, sono emerse nuove prove che vari Stati membri dell’Ue …hanno colluso con la Cia nel sequestro, nella detenzione segreta e nel trasferimento illegale di prigionieri verso paesi in cui sono stati sottoposti a torture o ad altri maltrattamenti. Nonostante i ripetuti richiami del Consiglio d’Europa, nessun governo ha indagato a fondo o ha posto in essere misure adeguate per prevenire l’ulteriore uso del territorio europeo per rendition e detenzioni segrete […] Alcuni governi europei hanno cercato di annacquare la sentenza del 1996 della Corte europea dei diritti umani che proibisce il rinvio di persone sospette verso paesi dove potrebbero rischiare la tortura. La Corte si è nuovamente espressa in questo senso, in uno dei due casi esaminati nel 2007, ribadendo il divieto assoluto di tortura e di altri maltrattamenti”.
“Possono l’Ue o i suoi Stati membri chiedere il rispetto dei diritti umani alla Cina o alla Russia quando loro stessi si rendono complici di atti di tortura? Può l’Ue chiedere ad altri paesi, assai più poveri, di tenere aperte le proprie frontiere quando i suoi Stati membri limitano i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo? Può l’Ue predicare la tolleranza all’estero quando non affronta la discriminazione nei confronti dei rom, dei musulmani e di altre minoranze che vivono all’interno dei suoi confini?”
{{Quanto all’Italia, una scheda di approfondimento e aggiornamento}}, illustrata da Daniela Carboni, mette in evidenza come anche la XV legislatura abbia lasciato immutate le lacune relative all’attuazione della Convenzione delle nazioni unite contro la tortura: {{manca ancora uno specifico reato di tortura}} nel codice penale, mancano forme di identificazione degli agenti di polizia nelle operazioni di ordine pubblico, manca un organismo indipendente di controllo sull’operato della polizia (v. Genova G8 2001). Sotto accusa è {{la politica del sospetto}} portata avanti nelle espulsioni in rapporto alla “guerra al terrore”. Né è mancata la sottolineatura forte e critica di una sostanziale linea di continuità fra precedenti ed attuali forze di governo su {{Rom e migranti, discriminazione, xenofobia e provvedimenti della “sicurezza}}”.
{{L’occhio di Amnesty è rivolto anche alla Russia e alle potenze emergenti}} ed in particolare sulla Cina non solo per la situazione dei diritti umani in quel paese – in particolare in occasione delle prossime olimpiadi – ma anche per le sue politiche estere. E spazia su quelle “sacche” di diritti umani violati soprattutto nei paesi dove le guerre sono in atto.
“Se i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite hanno fatto poco per promuovere i diritti umani e molto per indebolirli, quale leadership possiamo aspettarci da potenze emergenti quali India, Sudafrica o Brasile?” .
Non mancano peraltro i riconoscimenti ad alcune azioni dell’Assemblea Onu: “Un grande esempio di coraggiosa leadership, nonostante l’opposizione di Stati estremamente potenti, è stata l’adozione, da parte dell’Assemblea generale, della {{Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni}}, approvata lo scorso settembre con 143 voti a favore al termine di un dibattito durato vent’anni. Due mesi dopo che l’Australia aveva votato contro, il nuovo governo del primo ministro Kevin Rudd ha presentato le scuse ufficiali per le leggi e le politiche di numerosi governi precedenti che hanno “inflitto profondo dolore, sofferenza e perdita” alle popolazioni aborigene.”
Restano interrrogativi pesanti sui mercati finanziari, sul coinvolgimento delle imprese nelle violazioni dei diritti umani, sulla possibilità di raggiungere gli Obiettivi del Millennio entro il 2015.
Quanto alle donne, “la comunità mondiale più discriminata”, ” {{dov’è finita la leadership necessaria per sradicare la violenza di genere?}} Le donne e le bambine sono colpite da alti livelli di violenza sessuale in quasi ogni parte del mondo.”
Eppure la consapevolezza dei diritti umani si sta diffondendo a livello globale e su questa si può basare la speranza e l’auspicio che le leadership mondiali “svoltino”.
“A un livello inimmaginabile nel 1948, oggi c’è {{un movimento globale di cittadine e cittadini che chiede ai propri leader di impegnarsi nuovamente per sostenere e promuovere i diritti umani}}. Gli avvocati pakistani con le toghe nere, i monaci birmani con le tonache color zafferano, i 43,7 milioni di persone che si sono alzate in piedi il 17 ottobre 2007 per chiedere un’azione contro la povertà, sono tutti vibranti segnali di una cittadinanza globale che si batte per i diritti umani e chiede ai propri leader di rendere conto del proprio operato.
{{In un villaggio del Bangladesh settentrionale}}, un gruppo di donne siede su stuoie di bambù in un angolo polveroso. Le donne stanno seguendo un programma di formazione sui temi della legalità. Molte di loro riescono a malapena a leggere e a scrivere. Ascoltano attentamente l’inseguante che, mediante poster e disegni, spiega che la legge vieta le spose bambine e prevede il consenso della donna al matrimonio. Le donne hanno appena ricevuto un prestito tramite il sistema del microcredito, gestito dal Comitato per il progresso rurale del Bangladesh, una grande Ong. Una donna ha comprato una mucca e spera di ottenere un reddito maggiore vendendo il latte. Un’altra vuole acquistare una macchina da cucire e ha messo su una piccola sartoria. Cosa spera di ottenere da quell’incontro? “Voglio conoscere meglio i miei diritti”, dice. “Non voglio che le mie figlie soffrano come ho sofferto io, per questo devo imparare come proteggere i miei e i loro diritti”. Nel suoi occhi brilla la speranza e la determinazione di milioni di persone come lei nel mondo.
Rapporto ed altri materiali sul sito di Amnesty international – Italia
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