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Nel 1903 nasceva ufficialmente a Roma il Consiglio Nazionale Donne Italiane, esperimento unico al tempo di Federazione di Associazioni diverse. Costituiva la Sezione Italiana dell’International Council Women, nato nel 1888. Pensi che l’apporto di altri paesi stranieri sia stato importante? Direi proprio di sì, perché ha fatto nascere e ha rinsaldato la consapevolezza che il genere fosse una categoria sociale e politica trasversale e che ci fosse bisogno di un’analisi diversificata per sesso nell’interpretare le tante realtà femminili, europee ed extra europee. Inoltre, il CNDI, presente in molte città grandi e piccole, rappresentò anche un baricentro per molti organismi associativi che sarebbero rimasti confinati in piccole realtà e vennero invece a conoscenza di tematiche che sprovincializzarono linguaggi, mentalità consolidate incidendo sulla modificazione degli stereotipi e sulle relazioni fra i generi.

 

In relazione al diritto di voto, quale è stata la spinta del Consiglio Nazionale Donne Italiane? Come per tutto l’associazionismo femminile il periodo storico fra Ottocento e Novecento è stato una palestra di libere discussioni, un confronto diretto fra donne di età, censo, classe ed esperienze diverse. Anche la costituzione del CNDI è servita quindi a creare un confronto tra diverse associazione e dunque diverse persone: far maturare la consapevolezza di diritti e doveri e a far emergere come, nonostante le differenze di classe, anche le più colte e benestanti fossero prive dei diritti fondamentali, quindi in un certo senso, tutte uguali nel depauperamento della cittadinanza. La vicinanza temporale del Risorgimento, inoltre, con l’influenza mazziniana, facilitò il dibattito perché molte donne condividevano la teoria di Mazzini secondo cui i diritti passavano attraverso il compimento dei doveri. Inoltre, le associazioni femminili, come si legge anche negli scritti di chi mi intervista, sono state esse stesse laboratori politici, perché le socie regolavano la vita associativa secondo norme democratiche, sperimentando un diritto di voto che all’esterno non avevano. Le cariche, infatti, di Presidente, Vice Presidente, Segretaria per l’Interno, Tesoriera, tanto per esemplificare, venivano presentate, discusse, elette con lo stesso meccanismo e la stessa logica delle elezioni amministrative e politiche, sia pure a dimensioni ridotte.

 

Quali sono stati i rapporti del Consiglio Nazionale Donne Italiane con i Comitati Pro voto? Positivi: va premesso che non poche donne facevano parte di più associazioni, per lo stesso fenomeno in parte odierno: le donne impegnate nel sociale e nel volontariato tendono a fare sempre di più, quelle che si tengono in disparte fanno sempre meno. Nell’associazionismo femminile comunque la compresenza in più organismi ha rappresentato una ricchezza, per gli scambi che ne conseguivano, e il rinsaldamento delle cosiddette ‘reti femminili’ attive ancora oggi; tutto ciò ha impedito di fossilizzarsi su un solo problema per quanto cruciale e ha accresciuto la consapevolezza che la condizione femminile sarebbe cambiata in virtù di un cambiamento sostanziale e collettivo, anche se le singole conquiste avrebbero avuto tempi diversi di risoluzione. Infine, le socie che si recavano all’estero o erano in contatto con le associazioni straniere portavano ‘notizie fresche’ della causa suffragista, in un periodo in cui i media erano molto ridotti, la stampa era un’operazione complessa, e la conoscenza delle lingue, era di solito appannaggio delle borghesi e aristocratiche colte.

 

Quali erano i rapporti con il movimento femminile socialista? La maggior parte delle socie del CNDI era di provenienza liberale, mazziniana, illuminata, ma con scarsa rappresentanza socialista. Alcune delle socie più attive del Consiglio erano sinceramente democratiche e suffragiste, ma provenivano da famiglie benestanti, se non ricche, proprietarie di beni mobili e immobili, oppure erano sposate con uomini che avevano cariche politiche o erano rappresentanti di partito non in sintonia con il pensiero socialista; è noto che all’interno del Partito Socialista e o nel movimento di area socialista la convergenza fra operaie e borghesi sul tema del suffragio universale era fortemente avversata perché si temeva che le donne borghesi avrebbero votato secondo i loro interessi di classe e non secondo il genere di appartenenza. Il Consiglio in fondo seguiva la strategia di Anna Kuliscioff: marciare divise per colpire unite.

 

Quale tappa considera fondamentale per il diritto di voto collegata al CNDI? Certamente, il Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane, inaugurato a Roma, in Campidoglio, nel 1908, alla presenza della Regina e salutato dall’allora Sindaco di Roma, Ernesto Nathan, uno dei figli della mazziniana Sara Levi Nathan, massone, radicale, illuminato. Il Comitato Nazionale Pro-Suffragio, che legava la causa del voto anche a lotte per i diritti civili del movimento femminil-femminista, ad esempio la ricerca della paternità, chiedeva e otteneva, dal comitato organizzatore del Congresso, una seduta plenaria interamente gestita dalle suffragiste. Presiedeva la seduta donna Giacinta Martini Marescotti, la prestigiosa presidente del Comitato Nazionale; vice presidenti, la marchesa Elena Lucifero e la professoressa Cleofe Pellegrini; segretarie Anita Pagliari e Romelia Troise; cassiera Elisa Lollini. Giacinta Martini Marescotti sottolineò nel suo discorso come fosse assurdo concedere il diritto all’operaio e negarlo all’operaia, non inferiore nella coscienza e nell’istruzione, che talvolta lavorava più di lui.

 

Ricordi qualcuno degl’interventi più interessanti al riguardo? Interveniva nella discussione la professoressa Anita Pagliari, della Società pensiero e azione, che aveva nei suoi discorsi individuato temi fondamentali e si rivelava anche profetica. Occorreva insistere sulla propaganda fatta dai comitati regionali presso i rappresentanti politici perché il diritto di voto non sarebbe stato ottenuto se non  quando la maggioranza dei deputati fosse stata favorevole. Le donne però da parte loro dovevano interessarsi delle leggi sancite dallo stato, discutendone e formulando progetti di legge riguardanti le donne per farle presentare alla Camera da qualche deputato ‘femminista’. Perché le donne fossero ascoltate dal Governo bisognava anche essere in molte, ben organizzate e attive, bisognava costituire un solo e compatto partito femminista italiano al quale  dovevano iscriversi donne e  uomini di convinzioni anche diverse, ma con un solo credo: l’uguaglianza civile  e  politica dei  due sessi; inoltre, bisognava fondare un  giornale  quotidiano che trattasse tutte le questioni dal punto di vista femminile e in cui tutte le manifestazioni della vita sociale, civile, politica, artistica, fossero giudicate da un’anima femminista. Solo allora, diceva Anita Pagliari, quando il nostro esercito sarebbe stato costituito, il paese avrebbe riconosciuto che lo stato era formato oltre che di cittadini, di cittadine.

Quali erano le contrarietà che durante il Convegno erano state elencate nei confronti del diritto di voto alle donne da parte della politica, dell’opinione pubblica, e delle donne stesse? Per esempio, Elena Ballio del Comitato Femminile Napoletano, nel chiedersi perché il voto femminile incontrasse tante ostilità, rispondeva che esso implicava il diritto di essere  elette, per cui la donna elettrice sarebbe stata in un avvenire più o meno vicino, consigliere, deputato, senatore, ministro e, perché no, anche presidente della  repubblica. Altri motivi erano più o meno noti: l’ignoranza assoluta di molta parte della popolazione, anche delle persone di media coltura; i pregiudizi  storico – religiosi – etici e giuridici; il timore avanzato dagli opportunisti che la donna non avesse ancora l’educazione  necessaria; l’egoismo dell’uomo che  non  intendeva rinunciare ai vantaggi  offerti  dalla  dipendenza  e dall’inferiorità giuridica della donna; gli egoismi dei partiti, fra cui il socialista, che negavano l’appoggio alla causa perché contraria ai loro principi; l’indifferentismo politico e l’inerzia comune a tutte le classi sociali. La baronessa Irene De Bonis distingueva due tipi di opposizione: quella maschile e quella femminile. Quest’ultima si basava sulle donne che non volevano dispiacere l’uomo e il marito, principale meta di vita. Quella maschile era motivata dalla perdita della propria superiorità.

Quali erano le spaccature all’interno del Consiglio e del movimento suffragista? Sostanzialmente potevano essere ricondotte a due motivazioni: ideologica e generazionale. Ad esempio, nel 1910, nel Comitato romano pro-suffragio le due anime, quella aristocratica e quella democratica vennero in urto. Il Comitato Pro-Voto donne di Torino, nella sua seduta del 17 gennaio 1910, deplorava  la crisi  incresciosa  che divideva le socie  di quel  comitato in  due campi, mentre la legge non aveva privilegi, né per le une, né per le altre. Esortava le componenti del Comitato  Romano a scordare i contrasti e a moderare le impazienze, riprendendo il proprio lavoro sotto l’egida della presidente Donna Giacinta Martini Marescotti, la quale, era ben degna e capace di portare a compimento l’aspirazione delle donne italiane verso una conquista che doveva metterle in grado di cooperare al miglioramento e all’assetto sociale e politico del  Paese. A questa si aggiungeva a volte la differenza d’età. Teresa Labriola, vice-presidente del Comitato Romano pro-suffragio, in un’intervista a “Il Giornale d’Italia” respingeva l’idea di  una contrapposizione tra aristocratiche e democratiche.

Per Labriola, il preteso scisma era stato enormemente ingrandito nella sua importanza e circondato senza ragione da una quantità di pettegolezzi. Alla richiesta del giornalista di riepilogare la storia del dissenso, rispose: «C’è nel Comitato un gruppo di suffragiste, che io chiamerò giovanile, e che vorrebbe vedere l’opera e il movimento del gruppo coronati da pratici risultati sia pure di lieve importanza, perché la sua opera era  stata finora incerta, teorica, infruttuosa»; il malumore serpeggiava quindi da tempo. Donna Giacinta Martini Marescotti ricevette una lettera della signorina Bice Sacchi, una delle più ardenti suffragiste, che rimproverava  apertamente d’inerzia tutta intera la presidenza.

In sintesi, quindi, il Consiglio Nazionale Donne Italiane quale ricetta riteneva migliore? Ritengo che la storia del Consiglio Nazionale Donne Italiane l’abbiano dimostrato le parole della Presidente Giacinta Martini Marescotti: «Credere, credere, credere; aver fede nel trionfo finale della nostra causa, associarsi, organizzarsi, operare con quell’entusiasmo che viene dalla fede nella vittoria.

Fiorenza Taricone (docente Dottrine Politiche-Università di Cassino e Lazio Meridionale, Consigliera di Parità-Fr)

 Info: associazionepdd@gmail.com