Non riesco a guardare con allegria la lotta contro le dittature nel mediterraneo mentre vedo con dolore la pervicacia di capi che col loro solo essere uccidono bambini, donne, uomini. Non riesco ad evocare eroicamente una necessità, l’unica, e malata, possibile in un mondo ancora governato dagli uomini, che ancora si ostinano a rimanere aggrappati alle loro soluzioni! Ho bisogno di chiamare le cose col loro nome.
Le donne sono scese in piazza hanno camminato per le strade delle loro città {{con tante intenzioni e forse troppo poche parole}}. Il 13 febbraio 2011, e molti altri giorni, in Italia, per le strade al Cairo e in tutta l‘area dove si succhia petrolio. Tra le poche parole che gli uomini hanno ascoltato c’è la parola dignità, forse perché l’hanno pronunciata anche loro.

La nostra dignità di donne: è quella che è stata scritta, e può essere letta, anche{{ in quella lunga teoria di “8 marzo”}}.

{{Dopo cento anni ce ne sono di cose ancora da dire}}, e ce ne saranno ancora altre perché siamo ai primordi, mi auguro, di una concezione condivisa della pace vissuta. Certamente se ne sentirà nuovo bisogno, di fronte al disastro degli accordi tra uomini. Quella della pace interna e internazionale è una concezione che fa soffrire, perché mentre le donne pensano e si salvano, le Istituzioni e le costruzioni economiche continuano ad avvolgersi intorno a pilastri fondati sulla violenza e l’ignoranza dell’altro. Chiamiamole pure Istituzioni, sono uomini e donne inclusi nel potere, mai stanchi di guerra.

I soggetti politici “ufficiali” sono avvolti e attaccati a quei pilastri che costituiscono la loro assicurazione sulla vita come la conoscono, non bella ma l’unica che conoscono.

Staccarsi e andare verso l’altrove è una pratica che le donne libere conoscono bene e pare che , agita consapevolmente o no, sia l’unica a muovere le società e che fa avvertire le donne come “pericolo”, con il loro solo esistere. Per questo sono uccise le donne, anche in guerra, non solo tra le pareti domestiche.

Ogni volta, {{da ogni gesto autodeterminato, nascono parole per dirlo}}, e questo non ha nulla a che vedere con quanto viene volgarizzato e comunicato dal sistema mediatico emanazione dei poteri forti, o del potere. L’analisi profonda dei meccanismi mediatici, riconduce ad una verità semplice, alla quale sembra non siamo preparate: la stampa in tutte le sue forme imprigiona anche quando blandisce.

Ogni volta che pensiamo di trasferire una concezione della politica e della vita nata nella concezione femminista, tendiamo a riprodurre l’errore di credere che la stampa sia “per noi”.

Quante frustrazioni, attraverso quei cento anni nei quali abbiamo parlato della dignità del genere umano! Quante frustrazioni nel veder passare poche parole, poche parole semplificate. Non perché fossero complicate in origine: sono anzi parole semplici come “dignità” alle quali è stato sovrapposto un altro significato.

{{Che fare? Se la comunicazione politica è così congegnata?}} La domanda/romanzo (Gavrilovich) ha superato i cento anni, è più vecchia dell’8 marzo, ma sempre la stessa e va tradotta così: “Non sarà una presa in giro nominare dei diritti e lasciarli sulla Carta?”

Certamente si e se, rifacendoci a quella domanda, ci viene in mente la parola schiavitù, stiamo attente a non evocarla perché c’è sempre la possibilità che, per la sua accezione deformata,dia argomenti a chi ci vuole ridicole, nel momento in cui solleviamo il velo su un macroscopico conflitto d’interessi tra la gestione del potere politico “aggrappato ai pilastri della violenza” e l’applicazione dei diritti “nominalmente riconosciuti”.

È{{ il conflitto d’interessi in cui vive, oggi, il capo del Governo Italiano }} (morente come altri nel Mediterraneo) pur avendo la responsabilità esplicitamente attribuita, un gradino superiore a quella del Parlamento, del trasferimento dei diritti dalla Carta ai cittadini, invece afferma la tratta “multietnica” di donne e bambine nelle transazioni internazionali e nelle pratiche di amministrazione interna.

Giustamente, {{il 13 febbraio}} “tutti i democratici” si sono spostati sulla rivendicazione della dignità femminile, ovvero quella del mondo, tralasciando per un tempo, per una sola battuta, l’affermazione delle verità processuali (se ricordo bene anche queste ci dovevano “tutti allarmare” nei processi per stupro), e hanno guardato in faccia la natura del potere politico, che forse viene un po’ prima di ogni altro scandalo. Dico questo perché i processi stabiliscono verità(on sempre) che poi “fuori” vengono ribaltate, lasciando inalterata la struttura criminale.

Inutile dire che quando le donne dicono {{BASTA}}, hanno loro intenzioni e continuano a comunicarle da donna a donna, silenziate, ma sentite bene e così forte da dover essere nuovamente i{{ntepretate}}. Le parole scottano pronunciate in un modo, e sono pietre quando sono pronunciate in un altro, e possono colpire chi le pronuncia come con una fionda che le scocca nel verso contrario.

Non ho dubbi sulla parola {{dignità}}, perché credo di non doverla considerare di proprietà di coloro che ne abusano, ma penso che dubbi ne dovrebbero avere in merito tutti coloro che oggi la brandiscono per metterla come un vestitino d’acciaio a me nuda e scostumata.

Non ho dubbi perché ho {{memorie pericolose}}, di occultamenti utili a contrabbandare il condiviso retorico della manifestazione del 13, che invece è stato per molte il doloroso incontro, cercato perché ineludibile, tra un modo di stare al mondo ed un altro, che quello stare al mondo prende e riduce ad una grigia sopravvivenza. Il sopravvivere di uomini attaccati a quell’unica certezza dei pilastri patriarcali.

Le mie memorie pericolose, non servono a dar colpe, perché le vedo e mi basta, ma credo che siano necessarie al sapere dove siamo, a non scambiare per guide soggetti che potrebbero dignitosamente essere gregari rispetto alla forza trainante di chi vuole davvero cambiare, e riesce a farlo ogni volta, anche quando sembra sotto controllo.

Ricordo, a margine, di aver fatto letterine a tutti i capigruppo di camera e senato per richiamarli all’obbligo un lessico rispettoso già nello scorso 2010 un po’ per divertimento scettico, un po’ per dar segno ad altre. Risposta ragionata una sola:quella dell’on. Giulietti.

{{La questione del linguaggio e delle immagini non è secondaria}}, è quella che veicola l’idea del diritto e dei diritti e l’abbiamo posta, parlo da Napoli, in termini legali e in termini simbolici: imprimendo la parola dignità, quella che se se ne va se ne va per tutti, su azioni e proteste contro le manovre per portare i diritti delle donne “dove dovrebbero essere” cioè sulla carta.
-Le battaglie contro la pubblicità e la comunicazione, anche quella di governo, lesiva CONTRO LE DONNE
– Le azioni contro la riduzione della salute a merce, e contro una sanità mirata a “coltivare i corpi come macchine da riproduzione.
– La ribellione permanente allo scempio della terra.
– La mobilitazione permanente e diffusa contro il femminicidio in guerra e in casa

Un elenco che potrebbe allungarsi. Ho scelto quattro punti perché sono quelli che hanno date precise, e dove la malafede dei cercatori che lamentano “dove sono le femministe?” è evidente e senza vergogna.

Non ci si po’ curare ulteriormente di loro, ma bisogna pure che abbiano contezza della considerazione che meritano.

{{
L’8 Marzo, quello del centenario}}, non sarà nulla di speciale, o se lo sarà lo sarà grazie alle donne che hanno trovato il modo, nonostante tutto, di ignorare la censura, e fare nelle piazze quello che non fa “la libera stampa”. Se sarà parleremo tra noi di diritti e desiderio. Se sarà faremo quella confusione di cui ha orrore il potere. Perché quella confusione parla dell’ordinato cammino, e perseverante, verso la pacifica convivenza tra generi.

Vivo in un soggetto politico e non ho paura di confondermi.

{immagine}: manifesto Udi Ferrara