Beni comuni
Vorrei questa volta indicare il perchè del mio scrivere e del mio modo di scrivere: cerco di affrontare argomenti di teoria politica con un linguaggio preciso, non ad effetto e/o retorico, comprensibile da chiunque abbia assolto l’obbligo scolastico.
Cerco di evitare linguaggi tecnici o specialistici o esibizioni di erudizione, sopratttutto cerco di evitare l’inglese, che è il nuovo “latinorum”, e ha lo stesso effetto, o almeno la stessa intenzione intimidatoria che aveva il latinorum di manzoniana memoria. Non credo infatti che si possa annunciare l’alfabetizzazione totale come diritto alternativo e parte dell’alternativa al capitalismo, se il linguaggio con cui si comunica non diventa un veicolo al quale tutti e tutte possono avere accesso e fruirne.
Per questo inoltre scrivo {{“teoria d’occasione”}}, prendendo spunto da un fatto un detto un gesto un evento capitato e noto, e da lì parto per fare il giro dell’orizzonte. Se ciò dà luogo a forme di teoria non organiche, non costruite per gerarchia di argomenti o nobiltà di tematiche, va bene: tutto nella realtà, specialmente il nuovo, si presenta confuso: rendere intelleggibile, comprensibile e utile l’ammasso, il mucchio, il gomitolo disordinato degli eventi è ciò che si deve fare. Sicchè anche per il metodo, va bene.
{{ Parlerò di “beni comuni”}} e poi -separatamente- di Engels.
Incomincio da “beni comuni” che adesso sono di gran moda e imperversano. Il fatto che siano di moda, non li raccomanda, il fatto che imperversino non li arricchisce di valore conoscitivo. Molte sono le locuzioni molto diffuse e di moda che non hanno modificato la comprensione del mondo: ad esempio: Fantastico! o Allucinante! e simili.
Prima di tutto {{Bene comune}} al singolare è locuzione molto antica aristotelico-tomista, e {{indica il fine della politica}}: fare politica significa dedicarsi al bene comune, che non è la somma dei singoli beni individuali (questo é importante), ma qualcosa che si ottiene mettendo a confronto i beni individuali e li si combina per ottenere il massimo bene diffuso o comune: può darsi che qualcuno ci perda qualcosa, ma il risultato è di giustizia. Su questo ragionamento è fondata la legittimazione del fisco, che infatti può e deve andare anche contro un bene individuale di dimensioni eccessive e correggere la distribuzione della ricchezza.
Nel Medioevo invece{{ l’ espressione al plurale}} indica ciò che un Comune (fa parte della civiltà comunale europea là dove è esistita) mette a disposizione dei suoi abitanti: i beni comuni o vicinìe sono beni di proprietà comunale e di uso pubblico per le popolazioni di quel territorio. Riguardano soprattutto i boschi (legnatico), i campi (spigolatura), anche i fiumi (pesca) ecc. Gli abitanti di un territorio hanno accesso alle proprietà comunali per certi prodotti e utilità. Queste tradizioni si sono spesso conservate: ad esempio in Trentino la Magnifica comunità di Fiemme e Fassa è fatta di comuni che non hanno bisogno di mettere tributi comunali, perchè ricavano abbastanza dalla silvicoltura, dalla vendita e lavorazione del legname (un tempo gli alti pini per gli alberi delle navi della Serenissima). Un interessante esempio di proprietà collettiva.
Vengo più vicino ai nostri tempi. L’economia classica con Adamo Smith e altri definisce {{beni non surrogabili}} e privi di valore economico in quanto infiniti (o non misurabili) l’aria, l’acqua e la terra. La loro gestione è il vero “servizio pubblico” e comunque non sono oggetto di scambio, insomma sono “fuori mercato”.
Si deve considerare {{una pretesa irrazionale e violenta}} quella del capitalismo di trasformare in merce anche aria acqua e terra: questa è già barbarie indotta dalla crisi capitalistica in corso. Possiamo chiamare beni comuni appunto l’acqua (onde le lotte per la sua pubblicizzazione), l’aria (e quindi gli impegni per evitare di inquinarla) e la terra. Qui vi è il massimo di possibile uso interessante della nozione di “bene comune”, dato che sulla terra che abiti insistono tutti i tuoi diritti e molti tuoi doveri. Se la terra occupata da una popolazione è poca, non si può ridurla, decidendo d’imperio che vi si fa passare, magari non un’autostrada (che inquina anche l’aria) ma nemmeno una ferrovia che riduce la terra di uso abitativo o coltivabile. A parte che se l’opera viene trasferita sottosuolo, si finisce per trasformare le Alpi in un formaggio gruviera: quanto sia pericoloso ciò, sappiamo, dato che lì si realizza un incontro di faglie geologiche intercontinentali (zona sismica, come si è visto col terremoto in Friuli) e che il Brennero si chiama così, cioè “Bruciatore”.
Sono perciò {{contraria nel merito e nel metodo al Tav di Val di Susa e a quello del Brennero}}: le ragioni di merito le ho dette, quelle di metodo sono che decisioni in ordine a “beni comuni” non si possono prendere senza un {{coinvolgimento ampio diretto e costante delle popolazioni,}} dato che essendo beni non surrogabili, bisogna che le decisioni in proposito siano revocabili al massimo, e quindi la gestione dei beni comuni deve essere sempre collettiva e diffusa, di base.
Mi sembra anche{{ importante definire i beni comuni}}. La prima cosa da dire è che ciò che è gia definito e sancito come diritto positivo, non deve essere definito bene comune: il lavoro non è un bene comune, bensì un diritto costituzionalmente definito, la libertà di stampa pure, la pace sta all’art.11 della Costituzione ecc.ecc.: poiché é in corso un attacco alla Costituzione, sia per sostituire ad essa il mercato come principio ordinatore, sia per trasformare la repubblica in presidenziale, cioé oligarchica, credo si debba mantenere il frequente riferimento ad essa per tutto ciò che già è stato acquisito e iscritto nell’area del diritto positivo.
Dunque beni comuni {{(preferirei beni d’uso}}, poi dirò perchè) possono essere definiti l’acqua, l’aria, la terra. Qui si aprono molti importanti interrogativi sul diritto di superficie (già in Val di Susa si è cercato di lavorare anche su questo versante) e sulla destinazione universale della terra appunto come bene comune o d’uso: è un intero campo del diritto del quale sarebbe importante che si occupassero dei/lle giuristi/e.
Quanto a me, avendo fin da subito dichiarato che non mi piace affatto l’uso indiscriminato di bene comune, ho sempre però aggiunto che comunque, se di beni comuni vogliamo parlare, anche la riproduzione della specie (di tutte le specie viventi? delle foreste amazoniche? ecc.ecc.) è un bene comune.
Non sono riuscita ad avere una qualsiasi risposta, qualche battutaccia, tipo: a me le donne piacciono: se diventano bene comune, meglio! (segno del livello raggiunto dalla razionalità maschile!) e basta. Provo a riprendere la questione dal punto in cui è stata discussa nella cultura politica, dalla rivoluzione industriale in qua. E qui viene utile Engels. Al quale è giusto dedicare un po’ di attenzione in occasione della Mega, cioè della Marx-Engels Gesellschaft (società Marx-Engels) che ha in corso la edizione critica e completa dell’opera dei due e del ricchissimo carteggio tra loro intercorso, con l’intento di mettere questo immane lavoro a disposizione nella storia della cultura, cioè in certo senso svincolando i due dai “patrimonio” appropriato dai vari partiti comunisti esistenti, ma non più facenti parte di una organizzazione internazionale. Occasione da non perdere, per estendere l’opera e mettere a disposizione dei partiti elementl utili alla ridiscussione generale intorno ad essi come forma politica.
Quando dunque Adamo Smith scrisse {{La ricchezza delle Nazioni}}, giustamente magnificava le sorti progressive dell’umanità, favorite dalla produzione di merci in grande quantità e a buon mercato, con le macchine, e il miglioramento della qualità della vita con l’applicazione della scienza medica alla popolazione: suggeriva la ricchezza appunto come meta comune. Chi gli fece l’obiezione più diretta fu Malthus. Se le nazioni si arricchiscono, le popolazioni non muoiono più di fame e miseria e malattie, e di conseguenza la crescita demografica si mangerà la ricchezza delle nazioni. Bisogna dunque regolare la riproduzione della specie: effetto della rivoluzione industriale diventa la presa in carico di tutte le questioni esistenti, pena un tragico ritorno all’indietro. Al fondo dell’obiezione malthusiana vi era in realtà l’esigenza che il liberalismo politico e il liberismo economico si costituissero come disegno generale. Cioè come vera rivoluzione. Marx dimostrò più tardi perchè ciò non era possibile. Malthus era un pastore e si premurò di suggerire una pianificazione famigliare non incompatibile con la morale religiosa, ma questo non lo salvò dall’essere attaccato e fatto passare per un egoista immorale. La questione non è mai stata mollata, come si vede addirittura dal fatto che il tema della regolazione delle nascite è al centro della campagna della presidenza USA e che in essa va forte il reazionario Santorum (di origine trentina) antiabortista e antipianificazione famigliare, e potrebbe segnare la vittoria della destra repubblicana.
Di questioni simili si interessò più tardi Engels, la cui opera {{ L’origine della famiglia, della proprietà e dello {stato}} suscitò nella Chiesa cattolica più allarme che {{Il capitale}} di Marx. La Chiesa istituì subito la festa della Sacra Famiglia e si dedicò a costruire una forte difesa dottrinale intorno alla famiglia, che aveva sempre alquanto disprezzato (basta ricordare la concezione terapeutica del matrimonio, “remedium concupiscentiae”, cioè medicina del disordine sessuale). Il papa che fece tutto ciò non era nemmeno un reazionario, anzi era Leone XIII che scrisse la prima enciclica sociale della Chiesa, la “Rerum novarum”, in essa riconoscendo legittimità ai sindacati rispetto alle pur preferite corporazioni. Engels dal canto suo studiava l’origine della famiglia nella cultura evoluzionista, che seguiva. Questa sua collocazione gli alienò in seguito la simpatia del marxismo italiano, che invece fu sempre piuttosto hegelomarxista e storicista che evoluzionista darwiniano, guadagnando ad Engels tanto la nomea di generoso finanziatore del povero Marx, quanto di stupido materialista volgare. Marx non fu mai di questa opinione come testimonia appunto il loro carteggio nel corso del quale tra i due si discusse di tutto, specialmente delle questioni più controverse. Basterà ricordare la famosa domanda di Marx rimasta senza risposta: “va bene che l’arte è un mero rispecchiamento delle condizioni economiche del tempo in cui nasce: ma com’è che Omero ci affascina ancora, mentre le condizioni economiche del suo tempo non esistono più?”
Nel riflettere {{intorno alla famiglia}} Engels notava che essa era il luogo di una contraddizione che chiamò “originaria” tra uomini e donne, che non dichiarò dipendente dall’appartenenza di classe, bensì di autonoma fondazione; la conseguenza è che, secondo Engels, nella famiglia l’uomo (qualsiasi uomo, anche un operaio) rappresenta la borghesia, qualsiasi donna è il proletariato. Molto più recente è la contraddizione tra le classi o principale. Ciascuna di esse ha un andamento autonomo e il loro mescolarsi rende egemone la più forte sommatoria. Sicchè se alla contraddizione tra le classi si somma senza essere superata la contraddizione tra i generi, rafforza enormemente nella contraddizione tra le classi quella con cui si allea. La classe operaia si imborghesisce, oppure (ma non è mai avvenuto) la borghesia si proletarizza.
Ho esposto la vicenda in modo semplificato e sommario, ma mi permetto di sottolineare che si può pensare uno sviluppo di teoria politica non singolare nè monoteista, bensì “{{molteplice}}” e che il posto destinato al patriarcato è decisivo per il possibile sviluppo rivoluzionario di una crisi capitalistica strutturale e globale.
Tutto ciò è tanto più vero da quando le donne sono nel mondo stabilmente la maggioranza della popolazione, e si trovano in posizione oppressa, economicamente più povera e socialmente dipendente. Insomma {{le donne sono il sottoproletariato del mondo}}. Diventano il proletariato mondiale appena acquisiscono coscienza di sè. E chi non riconosce o non confuta questa teoria delle contraddizioni, faccia a meno di pretendersi “comunista” perchè invece contribuisce a far vincere il capitalismo, in un momento in cui, essendo produttore di una propria crisi strutturale e mondiale, il capitalismo non è più nemmeno riformabile.
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