La professoressa Fornero, per il mestiere che fa e per le materie di cui si occupa, è molto probabile che usi l’inglese più dell’italiano. Ma dal momento che il suo ruolo attuale la pone al governo di un Paese dove si parla italiano quando parla con un giornale inglese dovrebbe tener conto del fatto che al popolo che lei governa le sue parole arriveranno tradotte. Il mio rapporto con la lingua inglese non è semplice: la parlo male, la capisco peggio, se a parlarla sono gli anglofoni di prima scelta (inglesi e statunitensi), la scrivo maluccio, ma la leggo bene. E dal momento che sono un po’ fissata sull’uso corretto delle parole, a volte noto nella lettura più sfumature rispetto a persone che la padroneggiano in maniera più {fluent } di me.

La professoressa {{Fornero}}, per il mestiere che fa e per le materie di cui si occupa, è molto probabile che professionalmente usi l’inglese più dell’italiano. Ma dal momento che il suo ruolo attuale la pone al governo di un Paese dove si parla italiano (e non si conosce molto bene l’inglese), quando parla con un giornale in quell’altra lingua dovrebbe tener conto del fatto che al popolo che lei governa le sue parole arriveranno tradotte. E {{la traduzione, come si sa, è sempre un tradimento.}}

Leggo sul {Corriere} una difesa della sua intervista al {Wall Street Journal}: Fornero ha parlato di {job} e non di {work}. Dalla trascrizione della conversazione all’articolo che tale conversazione sintetizza, {job} (il posto di lavoro) è diventato {work} (il lavoro, il lavorare). Quindi Fornero non avrebbe detto: {work isn’t a right} (lavorare non è un diritto), ma {job isn’t a right} (il posto di lavoro non è un diritto). E di conseguenza, non ci sarebbe nel suo dire nessun attacco alla Costituzione e ai suoi principi fondamentali.

Può darsi. Non mi unisco alla schiera di chi l’accusa di questo, ma le faccio un’altra accusa: quella, appunto, di non aver tenuto presente, parlando a un giornale, che il suo inglese sarebbe stato letto, nel suo Paese, in una lingua che per dire “lavoro” ha un solo vocabolo.
A trascuratezze linguistiche Fornero ci ha abituato fin dall’inizio. Vi ricordate le lacrime? Stava per dire, senza riuscirci, la parola {{“sacrifici”.}} Mai parola fu più impropriamente usata di questa nel linguaggio dei politici: quando un politico parla di “sacrifici” mi chiedo se sa che cosa vuol dire, se sa che si sta parlando di un “sacro” rispetto a cui ci si “sacrifica”. Ci si riferisce di solito a rinunce fatte in nome di qualcosa di più alto. Solo che in politica il “più alto”, il “sacro” non è quasi mai l’interesse generale, ma, come in questo caso, il pareggio di bilancio, che definire “sacro” mi sembra quanto meno eccessivo. Fornero si interruppe per le lacrime, ma la parola fu detta al posto suo dal presidente del consiglio.

E poi c’è stata la{{ “paccata” di miliardi… }} e altre, tante, troppe occasioni in cui parole incautamente (?!) pronunciate hanno aperto polemiche e richiesto smentite.

{{Sciascia}} fa dire a un suo personaggio, un professore di lettere: “l’italiano, non è l’italiano, è il ragionare”, e lo cito, per non citare sempre il solito Nanni Moretti e il suo (francamente antipatico) “chi parla male, pensa male”, che non tiene conto di come il possesso della lingua sia anche un fatto di classe.

Ma Fornero non può fare appello al suo passato scolastico da libro {Cuore} per giustificare il fatto che oggi lei, docente universitaria e ministra del governo italiano, usa le parole, in italiano come in inglese, senza cura alcuna.

Perché {{anche la cura delle parole fa parte della cura delle relazioni, necessaria per stare nel mondo}}.

immagine da web.rifondazione.it