Bollino blu per donne migranti
Le donne migranti nelle politiche europee d’immigrazione: vittime di un potere patriarcale situato “altrove” o di un rifiuto tutto europeo di riconoscere i loro diritti? Rifessioni dall’ultimo incontro della Commissione ad hoc per i diritti delle donne dell’Assemblea parlamentare euromeditaerranea.Il 23 ottobre scorso, la Commissione europea ha presentato l’atteso ‘{{pacchetto immigrazione’}}: due proposte legislative, la più nota delle quali é la {Blue Card}, il permesso di soggiorno di due anni rinnovabile, destinato ai e alle potenziali migranti qualificate-i. “Vogliamo che i lavoratori altamente qualificati cambino la loro percezione del mercato del lavoro europeo, altrimenti l’Europa continuerà a ricevere solo immigrati con basse qualifiche e medie” ha affermato Franco Frattini vice-presidente della Commissione europea e commissario responsabile del portafoglio Giustizia, libertà e sicurezza. I migranti legali che risiedono già in un paese dell’Unione europea sono l’oggetto della seconda proposta, il cui scopo é creare un’armonizzazione di diritti con quelli degli autoctoni.
La parola d’ordine é ‘integrazione’, ma la questione migrante continua ad essere affrontata in termini di convenienza economica. In questo contesto, non c’é spazio per una seria presa in carico dei {{diritti specifici delle donne migranti}} che, nel migliore dei casi, sono percepite come vittime, per essere poi ignorate quando chiedono il rispetto di alcuni basilari principi. Il richiamo ad una riflessione in tal senso é stato fatto nel corso della riunione della {Commissione ad hoc per i diritti delle donne} di Euromed (l’Assemblea parlamentare euromediterranea), alla quale lo stesso Frattini ha partecipato.
Le donne migranti rappresentano il 45% delle nuove ‘migrazioni legali’, ma sono molte di più, se si tiene conto delle migliaia di sans-papiers impiegate nelle reti di lavoro informale e sconosciute ai numeri delle questure. Riflettere sul grado di integrazione di queste persone, obiettivo dell’incontro, non é cosa facile, neanche per quelle che hanno la fortuna di possedere lo statuto di ‘legale’. La denuncia del razzismo, delle discriminazioni sul lavoro (tassi altissimi di disoccupazione o sottoqualificazione professionale), dell’esposizione crescente alla violenza familiare o comunitaria e degli altri meccanismi di oppressione di cui le donne sono oggetto, contenuta nello studio della rete europea {Femage}, stona con l’assenza di volontà politica di molti stati membri e della stessa Unione europea che tratta le migranti come un s-oggetto economico necessario per contrastare l’invecchiamento demografico o rivitalizzare alcuni settori dell’economia. “Il {{processo di integrazione é prima di tutto politico}} – ha affermato Bouthaina Shaaban, ministra dei siriani all’estero – é scambio di esperienze e soprattutto riconoscimento del portato di ogni soggetto. Lo vedo con le tante siriane all’estero, c’é un forte problema di razzismo, anche istituzionale, che rallenta i processi di integrazione reale”.
Se l’idea di una migrazione economica declinata al maschile, imperniata sull’uomo che parte a cercare lavoro e che chiede poi a moglie e figli-e di raggiungerlo era già frutto di un’interpretazione perversa, buona solo a schiacciare i diritti di genere, oggi essa ha davvero fatto il suo tempo. “Come militante dei diritti delle donne e come senegalese – ha affermato Ndioro Ndiaye, direttrice generale aggiunta all’Organizzazione internazionale delle migrazioni – trovo che questa lettura non abbia più senso, visto il numero di donne che sceglie un progetto di migrazione autonoma”. E anche in caso di ricongiungimento familiare, il problema é dato dalla pratica diffusa di assimilare l’identità delle donne a quella dei coniugi e, di conseguenza, a non fornire loro documenti personali. Un fatto che contribuisce a esporle a una doppia violenza: quella familiare e quella dello Stato. {{Senza documenti propri e senza libertà di movimento non si sceglie nè ci si emancipa e l’Europa fa oggi i conti con gli effetti di queste politiche}}. “Per poter parlare di integrazione delle donne migranti – ha continuato Ndioro Ndiaye – bisognerebbe prima rivedere quei meccanismi di restrizione nell’accesso a certi diritti di genere che sono alla base della condizione di precarietà di cui soffre oggi anche l’Occidente”. E, invece, le maglie della ‘migrazione legale’ si fanno sempre più strette, le filiere clandestine prosperano, i circuiti della tratta e dello sfruttamento di manodopera a basso costo si rafforzano si va verso una pericolosa perdita di visibilità e di diritti, soprattutto per le donne.
Il {{mancato riconoscimento dei diplomi}} costituisce un altro enorme ostacolo all’integrazione: “Rafforzare il capitale umano delle migranti e permetterne l’espressione completa – ha ribadito Ndioro Ndiaye – dovrebbe essere il fine delle politiche europee. Bisognerebbe favorire l’accesso all’occupazione, alla formazione professionale per quelle che ne sono sprovviste, alla protezione legale e ai diritti sanitari, penso in particolare a quelli riproduttivi, alle possibilità di intraprendere un’attività autonoma e cosi via. Senza parlare del ruolo che le donne hanno da giocare nelle politiche della cooperazione, ai cui tavoli decisionali sono ancora troppo assenti”.
Il dibattito politico che ciclicamente si riaccende su questioni come il divieto di indossare il velo nelle scuole, la lotta contro la pratica dei matrimoni forzati, i delitti d’onore, le mutilazioni genitali e le altre forme di “violenza di tipo comunitario” mostra {{l’interesse spesso strumentale di molti governi europei nei confronti delle migranti}}, quando poi nella pratica reale (succede in Belgio) una donna {sans papiers} é costretta a subire le violenze del coniuge perché il suo statuto di ‘illegale’ non le consente di accedere ad una residenza protetta. “L’assenza di documenti – ha aggiunto Ndioro Ndiaye – rende le donne migranti ancora più precarie, le sottopone a violenze fisiche e psicologiche che esse sopportano pur di non perdere il diritto a restare legalemente sul territorio, e questo é un punto che merita di essere dibattuto a livello europeo. {{Mobilitarsi sulle tematiche di grande violenza non basta}}”.
Si spendono però tante parole nel chiedere alle migranti di essere fattore di sviluppo, specie nel quadro delle politiche di rientro volontario al paese di origine. A questo proposito, Ndioro Ndiaye, chiamata inizialmente a parlare di questo tema ha detto: “{{Le donne migranti hanno il potere di sostenere il cambiamento di mentalità nelle loro società d’origine}}, grazie alla loro immagine di sostentarici materiali della famiglia (quando non addirittura di interi villaggi) ma hanno anche {{il diritto di godere di diritti individuali e duraturi nelle società d’accoglienza}}. Finché le condizioni minimali di rispetto dei loro diritti non saranno rispettate e l’accesso al lavoro resterà precarizzato non ci sarà un reale ritorno di conoscenza ma solo un aumento di esclusione sociale” . La negazione di questi diritti elementari é oggi visibile nella condizioni di precarietà ereditate dalle più giovani: “Quando la seconda generazione di migranti, e parlo di giovani donne nate nello stato di accoglienza, si trova a vivere la stessa condizione di precarietà delle madri – ha concluso – allora vuol dire che il modello di integrazione proposto necessita di una severa revisione”.
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