Le parole e le cose
Non vogliamo la liberazione dal lavoro, da due, tre o quattro ore della nostra vita, ma la liberazione del lavoro, vogliamo che la scuola sia luogo in cui favorire le condizioni per lavorare meglio, strumento di libertà, di relazione, di emozione, di produzione di senso tra soggetti. {Ci serve un punto di leva per sollevare le giuste pretese e abbassare l’arroganza dei potenti.[…]
La libera disponibilità delle nostre forze e l’indipendenza simbolica dai mezzi del potere vanno insieme ed è questo “andare insieme” che ci ha mostrato realisticamente le possibilità che abbiamo di esserci in prima persona in ciò che accade. }
(Luisa Muraro)
L’estensione del paradigma produttivo ai processi in corso nella scuola provoca slittamenti di senso in tante parole che assumono significati utili alla mercificazione. I saperi si trasformano in conoscenze e competenze standardizzate, in fattore alienabile, le soggettività si neutralizzano in know-how.
La formazione diviene addestramento mirato, specialistico, su svariate e polimorfe competenze che si adattano al mercato e alla competizione economica. Il “corpo” docente si fa organigramma, risorsa umana messa a valore finanziario, si adegua alle “misure” date, “funzione strumentale” ad un sistema che include e confisca dimensione cognitiva, tempo di vita. Centro funzionale che diviene centro sacrificale in tempo di crisi.
La logica del “divide et impera” trasforma la scuola da bene comune e luogo della relazione, a luogo del tempo cronometrato, luogo delle relazioni “strumentali” al profitto, in senso economico, non scolastico; luogo della messa tra parentesi delle relazioni personali e politiche.
Si vorrebbe confinare la scuola e le soggettività che in essa agiscono all’orizzonte di miseria simbolica dei tecnocrati e delle soluzioni neoliberiste alla crisi.
Ma, diciamo chiaramente che non ci rassegniamo al senso di colpa indotto dalla shock economy e al clima di tristezza e insicurezza generalizzata coltivato appositamente per generare uno stato di eccezione, che sospende il diritto, in modo ormai permanente.
Se quello che si dice e si agisce ha un valore universale, per tutte e tutti, vogliamo parlare di diritto di resistenza e di parole che possano riprendersi il senso.
Crisi, ad esempio. Il suo significato etimologico indica separare, fare distinguo, scegliere, generare, nuova consapevolezza e forza, da agire, insieme.
Trasformiamo la crisi in una risorsa, un punto forte per quelle e quelli che come noi vogliono rilanciare le dimensioni vitali delle relazioni umane.
Gli stereotipi sociali costruiti ad hoc negli ultimi anni addosso alle/ai docenti ed improntati ad una dilagante visione produttivistica sottraggono significato e realtà all’esperienza. Perché dedichiamo tanto della nostra esistenza all’esercizio di una professionalità che non si improvvisa, né si acquisisce una volta per tutte. La scuola è luogo delle relazioni umane: le famiglie affidano i loro figli portatori di problematiche e attese che ogni singola/o docente prende in-carico per ogni ora e giorno scolastico, non con logica impiegatizia o produttiva.
Il lavoro non è un oggetto fuori di noi, ma vita stessa; “agiamo” la cura delle relazioni educative ed affettive in gesti, parole, ambienti, contesti vivi che contribuiscono al benessere e allo sviluppo di ragazze e ragazzi. Dedichiamo tanto invisibile lavoro sommerso, qualità, valore sottratto a criteri di quantificazione, ma che ciascuna/o restituisce alla collettività, un benessere che diviene questione pubblica e non privata o individualistica.
Vogliamo portare al mercato il senso di ciò che facciamo, non per renderlo merce, ma perché si possa alzarne il valore.
Vogliamo parlare di reddito non solo come denaro-in-cambio, ma come senso di restituzione rispetto al tanto; restituzione, reale e simbolica del “valore”, espropriato, anche, da concezioni populistiche stereotipate che non rendono giustizia del lavoro di ciascun/a docente.
La crisi sollecita tutte e tutti a riattivare la nostra capacità di porre con più forza il nostro punto di vista, a ri-mettere in gioco il senso e le possibilità di modificarlo rispetto al già dato. Non vogliamo la liberazione dal lavoro, da due, tre o quattro ore della nostra vita, ma la liberazione del lavoro, vogliamo che la scuola sia luogo in cui favorire le condizioni per lavorare meglio, strumento di libertà, di relazione, di emozione, di produzione di senso tra soggetti.
Basta semplicemente dire, ciascuna, ciascuno un bel no a tutte le manovre del potere a partire dalle parole.
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