Senza infamia e senza lode
Qualcosa d’importante, qualcosa come un mutamento epocale è avvenuto, in un certo senso, con le recenti candidature di Ida Dominijanni e di Maria Luisa Boccia nelle liste di SEL. “{La separazione – non il separatismo, che è ideologico – è anche una categoria del pensiero che ha incarnazione sociale e che crea processi autonomi e asimmetrici, per cui, ad esempio, tu sai che le donne non devono andare ovunque qualcuno le chiami, né rispondere ogni volta che sono interpellate}”. (Lia Cigarini)
“{Perché allora la candidatura e i rischi connessi? Non mi sentirei, nel mio caso, di scomodare il desiderio. Non l’ho chiesta, non l’ho cercata, voluta come una cosa che si desidera. L’ho accettata, d’istinto, o per essere più precisa, non ho trovato stavolta dentro di me i motivi per dire di no come altre (quattro) volte…}”. (Ida Dominijanni)
“{E mentre c’è chi pensa ai parlamenti e chi ai movimenti, chi sottolinea la nostra essenzialità in tutti i contesti di cura del vivere, nella mia testa prende forma (e non è la prima volta!) un meraviglioso scenario apocalittico che si determina sulla sottrazione di presenza piuttosto che sulla somma!}” (Franca Carzedda in “Ritorno a Paestum”)
Esiste senz’altro, fra il primo e il terzo pensiero qui riportati – a separarli un lasso di tempo di oltre trent’anni – una linea di affinità elettiva e di continuità politica: le donne non devono andare ovunque qualcuno le chiami, le donne, piuttosto che aggiungere presenza, che fare somma, devono sottrarsi “apocalitticamente”. Nel bel mezzo, fra i due, il pensiero di Ida Dominijanni sulle ragioni della sua recente candidatura nelle liste di SEL.
“{Affamare il patriarcato}”. L’ho enunciata così, a mio modo, molto tempo fa, la necessità di sottrazione di presenza femminile dai luoghi del potere suggerita da Franca Carzedda. “Affamare il patriarcato” – toglierli il nutrimento, femminile, su cui vive e prospera ai nostri danni, noi consenzienti.
Un progetto di Vita, una pratica – per me. Molto di più, dunque, di una posizione, di una tendenza, di un’ideologia. Un progetto e una pratica con cui mi capita talvolta di rispondere a chi, alla costante ricerca di ”proposte concrete” sempre insoddisfatte e di risposte di tutt’altro genere da quelle che da me potrebbero venire, mi chiede, nero su bianco, di pronunciarmi sul cambiamento da me auspicato – la pratica della sottrazione di presenza – al solo scopo di disertarla, con buona pace, in quanto impraticabile: così appare ancora, a molte donne, una pratica di sottrazione di sé dai luoghi del politico la cui ”inaddomesticabilità” al già pensato turba e disorienta.
Una pratica che comporta, per come l’intendo, un cambiamento radicale che se non passa per la “sottrazione” delle donne al lugubre progetto di morte insito nel pensiero che vive dell’onnipotenza dell’Uno senza l’altro/a, trasforma le donne, a loro insaputa e loro malgrado, in efficienti funzionarie asservite al sistema di pensiero che intendono “sradicare”.
Eppure, nonostante gli appelli – o forse, chissà, a seguire – sulla “rivoluzione necessaria nel cuore della politica”, non è su questa linea radicale di pensiero e di azione che oggi, diversamente da quanto avveniva in passato, si muove e avanza, a passi lenti ma sicuri, parte di quello che possiamo definire, a giusto titolo, il Femminismo delle origini.
Noi tutte/i, si sa, siamo dentro un processo in costante divenire ma è utile ricordare che nell’imperativo etico “diventa ciò che sei” non c’è opposizione alcuna fra divenire ed essere, fra ciò che si diviene continuando ad essere ciò che si è.
Come dire che ciascuno/a di noi, condizioni permettendo, può divenire nel tempo ciò che è, ciò che, in fondo, è sempre stato/a. Il che dovrebbe essere quanto basta perché nessuno/a si senta autorizzato/a a giudizi di merito nei riguardi di chicchessia.
Qualcosa d’importante, qualcosa come un mutamento epocale è avvenuto, in un certo senso, con le recenti candidature di Ida Dominijanni e di Maria Luisa Boccia nelle liste di SEL.
Così non sarebbe se non fosse che questi due nomi, pur con dei percorsi politici diversi, sono nomi che per la storia personale e politica delle donne cui appartengono hanno avuto – e hanno – un peso nient’affatto marginale all’interno del movimento femminista che fa capo al pensiero della Differenza la cui primogenitura in Italia spetta – è bene non scordarsene – a Carla Lonzi.
Se non fosse che, pur non candidandosi in un partito qualunque fondato da uomini senza qualità, faranno parte, di fatto, e a pieno titolo, di quel “corteo degli uomini” inviso a Virginia Woolf.
Interrogarsi su che cosa stia effettivamente accadendo, comprendere e dare politicamente conto e senso a un evento che all’interno del pensiero del Femminismo delle origini si configura, a mio parere, come un’anomalia, sarebbe importante ma occorrono tempi e luoghi e pratiche di confronto, occorre, soprattutto, quella spinta decisiva che nasce solo dal desiderio di farlo.
In attesa di tempi a venire che mi auguro non lontani, mi accontenterò, per ora, di meno: di trasmettere pensieri e sensazioni vissute “a partire da me” durante la lettura di un post comparso in fb in cui una delle due candidate, Ida Dominijanni, sollecitata dalla sorpresa di alcune donne nei riguardi della sua candidatura e dall’accusa di “cambiamento di rotta” rivoltale da una giornalista, spiega le ragioni della sua decisione mettendo in chiaro che la sua posizione non è, né è mai stata, sulla linea dell’invito a praticare l’estraneità” (“…{Io proprio no, non ho mai invitato nessuna all’estraneità, come ti viene in mente}?”).
A me veniva in mente, in effetti, leggendo, che dare il proprio sostegno alle donne in Parlamento non è – è vero – un invito loro rivolto a praticare l’estraneità così come è vero che dare un tale sostegno non impedisce, a coloro che lo danno, di conservare integra la libertà di praticare la propria estraneità, di sottrarsi, se lo vogliono, ai luoghi della politica maschile.
E’ ciò che Dominijanni ha fatto, del resto, in altri tempi, con il suo ripetuto rifiuto di candidarsi il che suggerisce di pensare che il Sì, l’assenso dato questa volta, significhi lo scioglimento definitivo di una riserva in precedenza avanzata sulla propria estraneità ai luoghi della politica istituzionale.
In merito a questo mutamento di posizione e all’accusa formulata al riguardo dalla giornalista, c’è da rilevare, in via generale, che i cambiamenti non sono sempre necessariamente negativi e, in secondo luogo, che il “cambiamento di rotta” di cui si tratta, non è in alcun modo ravvisabile, in ogni caso, fra l’attuale posizione assunta da Dominijanni e la posizione espressa tre mesi fa a Paestum e riconfermata nei tre punti illustrati nel documento inviato alle donne interessate a saperne di più sulla sua candidatura. Ritengo in ogni caso, che qualsiasi rilievo critico, pur legittimo, su questo aspetto, dovrebbe prescindere da ogni personale tornaconto politico.
Ho apprezzato molto, del documento di Dominijanni (comparso in fb, in un gruppo aperto di discussione nella pagina della Libreria delle donne) l’onestà intellettuale e politica nel dichiarare il proprio “disincanto” rispetto a quel “molto poco” che una donna può fare in Parlamento anche se a dirci qualcosa della distanza dall’ambizioso antico sogno femminista di attuare uno “scardinamento” del potere maschile attraverso la pratica della Differenza, è proprio tale disincanto.
Un secondo elemento riguarda la constatazione, realistica e altrettanto onesta e disincantata, nel riconoscimento di una palese incompatibilità fra la rappresentanza e la pratica della relazione la cui estensione, per analogia, ad altre istituzioni diverse dal Parlamento (università, giornali) non vale certo – qualora fosse stato questo l’intento – a rendere tale incompatibilità meno irriducibile e politicamente nociva.
Un terzo elemento su cui Dominiijanni si sofferma, riguarda non tanto la differenza fra chi vuole entrare o non entrare nei luoghi istituzionali, ma “{fra chi è portata ad attraversare la contraddizione e chi se ne sente esentata}”.
Un aspetto, questo, che per essere comprensibile meriterebbe di essere ripreso e articolato in altro contesto. Risulta difficile comprendere, altrimenti, per quali ragioni per una donna della Differenza giunta ad un certo punto della sua vita e della sua esperienza politica, possa diventare importante “attraversare la contraddizione” all’interno di un Parlamento, quando da questa contraddizione che ogni donna, in quanto facente parte dell’ordine simbolico, vive ogni giorno sulla propria pelle, nessuna – neppure Dominijanni che afferma di attraversarla “da sempre” – può essere esente.
Prima di soffermarmi sull’ultima parte del documento e di fare alcune osservazioni sul “clima” complessivo, sull’aria che in esso si respira, vorrei dare il giusto peso a un altro passaggio nodale in cui Dominiijanni, con la stessa lucidità e onestà in precedenza mostrate, riconosce la funzione “neutralizzante” della rappresentanza. Che significa, per una donna, la possibilità/ necessità di abitare il simbolico maschile non in quanto Soggetto-donna, non in quanto Soggetto femminile portatrice di Differenza ma in quanto Soggetto neutro-maschile alienato.
Ciò che tuttavia emerge, ciò che qua e là traspare da questa presa d’atto, sostanzialmente acritica, circa il funzionamento di un ordine simbolico fallocentrico e dall’infelice condizione di neutralizzazione-mascolinizzazione del femminile che necessariamente ne deriva, è una forma di rassegnazione nichilista, una rinuncia circa la reale possibilità di portare la Differenza femminile dentro i luoghi del potere maschile.
Che ne è, allora, della “potenza della Differenza femminile” risultando assente, nel documento, persino quel discutibile “compromesso” introdotto in seno alla Differenza, fra rappresentanza e autorappresentazione – una specie di salvagente per galleggiare senza annegare nel simbolico maschile – invocato come pas par tout in altri contesti nell’illusione di risolvere, attraverso quella fragile distinzione, una “malattia” del simbolico che riappare qui, in tutta la sua immedicabilità e verità?
Vengo così, da ultimo, alle osservazioni di cui dicevo chiedendo venia verbis qualora dovessero risultare per qualcuna – al di là del mio desiderio e del mio sentire – un po’inclementi per via della presenza, nel documento di Dominiijanni, di quell’{ospite inquietante} che si chiama nichilismo.
A farne sentire la presenza è, oltre a una tonalità leggermente depressiva legata a una debolezza di desiderio – peraltro dichiarata – è una sequenza di non con cui il testo procede nella sua parte finale in cui si dà conto – attraverso una serie di motivazioni in negativo – del perché della propria candidatura:
Non mi sentirei, nel mio caso, di scomodare il desiderio. Non l’ho chiesta, non l’ho cercata, voluta come una cosa che si desidera. L’ho accettata, d’istinto, o per essere più precisa, non ho trovato stavolta dentro di me i motivi per dire di no come altre (quattro) volte. Per due ragioni.
La prima: c’è un passaggio arduo ma non chiuso, bisogna cercare di uscire contemporaneamente dal regime di godimento berlusconiano e dal regime della penitenza montiano, e di portare un po’ di aria nel discorso pubblico: dire no mi sembrava avaro e ingeneroso, come un volermi tenere per me le cose che mi si chiedeva, peraltro con garbo e rispetto per il mio profilo indipendente, di mettere in circolo.
La seconda: non c’è più il manifesto, almeno il “mio” manifesto”, cioè il luogo principale di precipitazione della mia scommessa culturale e politica, e c’è un grande vuoto e un brutto dolore per la sua fine e per il modo della sua fine.
Una candidatura non desiderata, non chiesta, non cercata ma per la quale non sussistevano, tuttavia, le antiche ragioni per dire di no. E colpisce che tra le ragioni per dire di sì (portare un po’ d’aria nel discorso pubblico, non dare prova di ingenerosità), c’è n’è una che conta più di tutte le altre e le supera: quella che evoca un “vuoto” , un “brutto dolore” e una legittima ricerca di benessere per farvi fronte.
Credo che non sia il peggiore dei cambiamenti possibili, né il più straniante rispetto a quello che ho fatto finora e che continuerò a fare. Credo che non faccia di me un’altra persona rispetto a quella che sono. Voi credete di sì? Mi dispiacerebbe assai….
Non lo credo. Credo, invece, che ciascuna/o abbia i suoi propri modi per elaborare un lutto, un “brutto dolore”, e credo che questi modi vadano accolti, compresi e rispettati. Non sono certa che questo basti per una politica delle donne ma forse la politica delle donne è fatta anche di questo. Quanto a me…beh! un po’ d’imbarazzo c’è: sarei disposta a rinunciare alla mia dichiarazione di non voto – ho scritto di recente da qualche parte – solo se si presentassero donne come Melandri, Boccia, Dominijanni, Cigarini. Due di loro già ci sono…a spiazzarmi. Ma io, prima di convertirmi… aspetto le altre.
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