Bologna, ma non solo, al centro di un serrato scontro tra artisti/e di strada e operatrici e operatori culturali
Si è aperta la mostra più attesa e osteggiata dell’anno a Bologna. Una mostra contestata da un gruppo di writer, in testa il più famoso, Blu, che ha deciso di coprire i suoi lavori in città con una colata di grigio contro la “privatizzazione dell’arte”. Gli artisti sul piede di guerra hanno organizzato una contro-mostra all’aperto.
Il progetto di “strappo” e restauro, ad altri, invece, è parso come un’occasione propizia per una mostra che vuole contribuire all’attuale dibattito internazionale. Si è così aperto un acceso dibattito tra artisti, operatori culturali e istituzioni.
Da anni, infatti, la comunità scientifica pone l’attenzione sul problema della salvaguardia di queste testimonianze dell’arte contemporanea e della loro eventuale e possibile “musealizzazione” a discapito dell’originaria collocazione ma a favore della loro conservazione e trasmissione ai posteri. Il confronto continua anche tra artisti. Nella riproduzione qui riportata vediamo un opera di Lady Pink titolata The Death of Graffiti 1982-Museum of the City of NewYork, Gift of martin Wong.
Questo dibattito parte dall’iniziativa del recupero delle opere di strada e dalle motivazioni che possiamo leggere nel documento firmato da Iole Siena, Presidente di Arthemisia Group, con Roversi Monaco e Leone Sibani
Sono trascorsi più di trent’anni da quando Bologna, prima in Italia, aprì le porte a una ricca mostra collettiva di writers graffiti newyorkesi. Già nel 1979 a Roma, con la mostra The Fabulous Five: calligraffiti di Frederick Brathwaite e Lee George Quinones organizzata dalla Galleria La Medusa, le nuove tendenze dell’arte americana erano sbarcate in Italia, ma con Arte di frontiera.
New York graffiti (1984) tutto il meglio della scena newyorkese – Keith Haring, Jean Michel Basquiat, Futura 2000, Ronnie Cutrone – trovava per la prima volta legittimazione all’interno di una sede istituzionale e non nelle stanze di uno spazio commerciale.
La mostra, ideata da Francesca Alinovi, ricercatrice dell’Alma Mater e allo stesso tempo partecipe delle vicende artistiche della vita cittadina, ebbe luogo, un anno dopo la sua tragica scomparsa, nella Galleria d’Arte Moderna, sede importante e fulcro culturale del quartiere fieristico, segnando per sempre la scena bolognese. Bologna non sarà più la stessa. Dalla metà degli anni Ottanta la città si innalzerà al ruolo di capitale italiana del graffitismo urbano e della street art, del writing graffiti o, ricorrendo a un’unica categoria secondo cui oggi si tende ad etichettare quelle discipline, dell’urban art. In un crescendo di attività, in breve tempo, le sue strade, le piazze, i palazzi – della periferia come del centro storico – accoglieranno i protagonisti indiscussi di quelle nuove espressioni artistiche, quali Monica Cuoghi, Claudio Corsello, Rusty, Dado e Blu, dando vita, in quelle risultanze che nulla hanno da condividere con il vandalismo grafico, a una sorta
di museo a cielo aperto che, anno dopo anno, i bolognesi sentiranno sempre più come proprio, tanto da auspicarne la giusta conservazione e salvaguardia.
Per tutti questi motivi non poteva che essere Bologna la sede ideale per una mostra “di rottura” come quella che Genus Bononiae, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Arthemisia Group presentano all’interno di Palazzo Pepoli, Museo della Storia di Bologna. A distanza di
trentadue anni, ancora una volta, Bologna dimostra la sua vocazione come centro d’avanguardia per l’urban art, luogo ideale in cui proporre, per la prima volta su scala internazionale, alla comunità degli esperti o dei semplici conoscitori, alcune riflessioni su temi che necessitano ora più che mai di essere discussi e affrontati. L’arte allo stato urbano non è solo la prima grande retrospettiva dedicata in Italia a questo tema, non solo un momento unico e originale per scoprire la storia dell’arte di strada nella New York degli anni Settanta e Ottanta, ma lo strumento per capire che le città vivono e comunicano attraverso un sovrapporsi non regolato di parole e per apprezzare una selezione di opere – alcune provenienti direttamente dalla strada – che offrono un ampio scorcio della street art degli anni Duemila. Quest’esposizione vuole, infatti, offrire l’occasione per una riflessione sulla memoria di queste esperienze urbane. Vuole aiutare a comprendere quali modalità e quali approcci sono da prediligere per preservare questo fenomeno
artistico e culturale e soprattutto quale potrebbe essere il ruolo del museo in questa prospettiva.
Bologna guarda ancora lontano e lo fa grazie a una delle sue principali istituzioni culturali, nell’intento di rendere partecipi di un processo culturale innovativo i suoi cittadini e l’interno Paese.
Ma Blu non è d’accordo e così ribatte «La street art non è fatta per essere chiusa nei musei dove serve il biglietto di ingresso ma deve essere fruibile in modo gratuito nel contesto urbano dove è stata realizzata. La protesta di Blu a Bologna mi piace». Marco Miccoli è tra i promotori del festival Subsidenze dedicato alla street art a Ravenna, che si appresta a vivere la terza edizione, e accoglie con approvazione la mossa del celebre writer bolognese d’adozione: da ieri notte sta cancellando le sue opere nel capoluogo emiliano in aperta contestazione con l’istituzione culturale Genus Bononiae (sostenuta da fondazioni bancarie e presieduta dall’ex rettore dell’Università) che il 17 marzo aprirà una mostra dedicata ai graffiti con circa 250 opere strappate dai muri delle città, in alcuni casi senza il permesso degli autori.
«Se un artista decide di realizzare un pezzo sul muro di una città – prosegue Miccoli nel suo ragionamento – lo fa perché concepisce la sua opera come qualcosa di fruibile a tutti, in modo gratuito ma sul posto in cui si trova senza diventare qualcosa di itinerante da un museo all’altro». Ben vengano le tutele delle opere ma nelle forme giuste: «A Pisa hanno messo una parete trasparente a protezione di un muro realizzato da Keith Haring. Non può essere danneggiato ma resta a disposizione di tutti quelli che vanno a Pisa».
Quale la storia?
Sul finire degli anni Sessanta del ‘900, nuove pratiche artistiche urbane sono apparse in diverse città del mondo occidentale, con l’intento di ridefinire la nozione di arte nello spazio pubblico. Sotto l’etichetta street art, riuniamo oggi diverse forme di arte pubblica indipendente, che riprendendo i codici della cultura pop e del graffittismo, utilizzano il dialogo tra la strada e il web per dare vita a forme decisamente innovative. Dopo dieci lustri, il fenomeno socio-culturale del graffitismo urbano ha guadagnato una rilevanza unica nel panorama
della creatività contemporanea: le opere di artisti come Banksy hanno invaso le maggiori città del mondo, e dagli anni Ottanta a oggi la stessa Bologna si è affermata come punto di riferimento per molti artisti – da Cuoghi Corsello a Blu, passando per Dado e Rusty – che hanno scelto proprio la città Felsina per lasciare il loro segno sui muri. Dal 18 marzo questa forma d’arte è raccontata nella sua evoluzione, interezza e spettacolarità nelle sale di PalazzoPepoli – Museo della Storia di Bologna con una grande mostra intitolata Street Art – Banksy & Co. L’evento porterà inoltre per la prima volta in Italia parte della collezione del pittore statunitense Martin Wong donata nel
1994 al Museo della Città di New York, presentata nella mostra City as Canvas: Graffiti Art from the Martin Wong Collection, a cura di Sean Corcoran curatore di stampe e fotografie del Museo.
Il progetto nasce dalla volontà di un gruppo di esperti nel campo della street art e del restauro con l’obiettivo di avviare una riflessione sui principi e sulle modalità della salvaguardia e conservazione di queste forme d’arte. «Il recupero di opere d’arte contemporanea – afferma Roversi-Monaco – come i graffiti sui muri di strutture ubicate in zone periferiche della città – strutture che hanno subito e rischiano la demolizione per programmi di sviluppo urbano già definiti e spesso attuati – non è un atto vandalico. Occorre uscire dal conformismo latente e dannoso di chi vuole per forza criticare questa operazione e non ne prende in considerazione l’aspetto culturalmente rilevante e per ciò stesso meritorio. Il senso della mostra “Street Art Banksy and Co. L’arte allo stato urbano” vuole essere questo, e siamo certi che la città parteciperà con grande attenzione a questa iniziativa». La mostra Street Art – Banksy & Co. racconta per la prima volta le influenze sulle arti visive che la street art ha avuto e continua ad avere, passando per quell’estetica che nacque a New York negli anni ‘70 grazie alla passione per il lettering e il name writing di giovani dei quartieri periferici della città. Espone le opere di autori associati al graffiti writing e alla street art, per creare lungo il percorso le assonanze tra le diverse produzioni e spiegare il modo in cui sono state recepite
dalla società. Il patrimonio artistico è protagonista dell’inedita esposizione ospitata a Palazzo Pepoli, che con la sua corte coperta riproduce quella che potrebbe essere una porzione di città, luogo ideale per raccontare una tappa importante della storia di Bologna. Il fine utopistico e l’intento sono proteggere e conservare questa forma d’arte e portare le attuali politiche culturali a
riconoscere l’esigenza di una ridefinizione degli strumenti d’intervento nello spazio urbano perché i graffiti – oggi più di ieri – influenzano il mondo della grafica, il gusto delle persone, l’Arte intera di questo secolo.
La Mostra
Il percorso espositivo si articola in tre tematiche – la Città dipinta, la Città scritta, la Città trasformata – che esplicano il concetto di Città come luogo di dinamiche sociali e culturali, ma, in parallelo, il visitatore potrà scoprire anche le diverse modalità con cui, fin dagli anni ’70, queste pratiche artistiche urbane sono state, per così dire, archiviate e storicizzate. La prima sezione intitolata alla Città dipinta raccoglie opere prodotte per il mercato e pezzi provenienti dalla strada. Il percorso offre una retrospettiva sul lavoro di tre rappresentanti fondamentali della street art degli anni 2000: Banksy, Blu e il duo brasiliano degli Os Gemeos. Banksy, di Bristol, classe 1974 è un artista inglese le cui opere sono spesso a sfondo satirico e riguardano argomenti come la politica, la cultura e l’etica. I suoi stencils sono comparse proprio a Bristol e nelle maggiori capitali europee e americane, non solo sui muri delle strade, ma anche nei posti più impensabili come le gabbie dello zoo di Barcellona. Sono i suoi famosi Rats – soggetto scelto dal grande Banksy e con il quale ha coperto tutta Londra – i protagonisti della prima parte di questa sezione, accanto a opere come Love is in the air, (2003, Parigi, Collezione privata) e Girl with gas mask, (2002, Amburgo, Reinking Collection). Blu è lo pseudonimo di un artista di Senigallia, considerato tra i migliori street artists al mondo. A lui è dedicata un’intera sala con i video prodotti negli anni 2000 e raccolti nel dvd Sketch Notebook (2010). Blu inizia a farsi conoscere a partire dal 1999 attraverso una serie di graffiti eseguiti nel centro storico di Bologna e in periferia, negli spazi occupati del centro sociale Livello 57. A partire dal 2001 le sue opere – eseguite con vernici e grazie a rulli montati su bastoni telescopici – coprono superfici pittoriche gigantesche: i suoi soggetti sono figure di umanoidi dai
connotati sarcastici o talvolta drammatici il cui immaginario sembra ispirarsi al mondo dei fumetti e dei videogiochi. In mostra l’opera di Blu Senza titolo del 2006 proveniente da Bologna (Associazione Italian Graffiti) copre un grande muro alto 12 metri.
Os Gemeos sono due gemelli nati nel 1974 a San Paolo in Brasile dove hanno cominciato a dipingere graffiti dal 1987 influenzando questa tipologia d’arte e contribuendo a definire uno stile del Brasile. Il loro lavoro presenta spesso personaggi dalla pelle gialla – come The Guitar (2007, Amburgo, Reinking Collection) – e i soggetti spaziano da ritratti di famiglia, al sociale, alle politiche di San Paolo e al folklore brasiliano. In questa sezione anche opere del noto artista urbano Invader che semina in angoli di strade di tutto il mondo tasselli a
mosaico che riproducono personaggi ispirati ai videogiochi arcade Space Invaders del 1978. In mostra opere come Black Extension (Collezione Jacques et Thierry, Parigi, 2009) congiuntamente ai lavori di Blek le Rat – grande influencer dei più famosi street artists – come Michelangelo with rats (1987, Courtesy Blek le Rat and Wunderkammern Gallery), accanto agli stencils del duo di Brooklyn Faile.
Altri grandi esponenti dell’arte di strada di fama mondiale spiccano all’interno dell’esposizione: Dran, Ron English, Shepard Fairey aka Obey , Swoon e Daim.
Città scritta
Questa sezione s’ispira alle ricerche fondamentali di Armando Petrucci – filologo, paleografo e medievista italiano – sulle diverse forme di scrittura nello spazio pubblico tra XI e XX secolo come rilettura storiografica della tag: la forma più basilare di graffiti che, come forma di scrittura caratteristica della nostra epoca, è la firma del writer realizzata con spray o marker.
Una collezione di opere e autentici “strappi” di muri delle città mettono in scena le diverse forme di graffitismo e writing, ponendo a confronto le esperienze nazionali – come quelle del mai dimenticato artista fiorentino Tommaso Tozzi, uno dei primi italiani a dipingere graffiti sui muri di Firenze -, con quelle europee come i graffiti Punk olandesi. In omaggio alla città di Bologna, fra le principali capitali italiane dell’Urban Art e del Graffiti writing, in questa sezione lavori del duo Cuoghi Corsello (Spaccare tutto, intervento site specific, 2016), di Rusty e di Dado accanto a video, installazioni, fotografie di graffiti writers e artisti considerati tra i migliori rappresentanti di questo genere dal 2000 al 2010 come Daniele Pario Perra (Anarchetiquette. God shave the queen, ex Centrale del latte Catania, Bologna), di Steve Raviez (Fotografie della scena graffiti Punk di Amsterdam, 1979 ca., Amsterdam, Dutch Graffiti Collection), di AREK (Collezione privata di tags, Parigi, 1990).
E’ una vista ravvicinata sulla New York del 1980, una mostra dentro la mostra che presenta nella
sua interezza la collezione donata nel 1994 dal pittore statunitense Martin Wong al Museo della Città di New York, che giunge per la prima volta in Italia. Cocurata da Sean Corcoran, curatore del Museo newyorkese, la sezione pone a confronto l’arte dei graffiti di quel
decennio – al momento della sua consacrazione sul mercato – e artisti come Keith Haring John Fekner e Don Leitch che crearono un ponte tra l’estetica della strada e l’arte contemporanea.
Grazie a questo omaggio a New York e alla cultura artistica statunitense pensato dal curatore, si potranno ammirare lavori su tela, carta, sketch firmati dai più grandi street artists statunitensi come Rammellzee, Christopher “Daze” Ellis, Futura, Keith Haring, LA II, Lady Pink, e Lee Quiñones. In mostra il lavoro di Blade (Senza titolo, 1985 ca., New York, Museum of the City of New York), l’opera a più mani intitolata Wicked Gary’s tag collection (1970-1972, New York, Museum of the City of New York), Futura con Interkosmos, (1984, Parigi, Collezione Jacques et Thierry), Keith Haring (Subway Poster, 1983-1984, Collezione privata), e Daze (Pursuit, 1985, Martina Franca, Fondazione Studio Carrieri Noesi).
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