Il patriarcato è finito, ma non troppo
Sì, il patriarcato è finito.
Tuttavia, accomiatarsi dal modo di pensare patriarcale, scalzare la posizione maschile al centro dell’universo, rompere la complicità tra uomini, non è così facile. Appena ci rifletti, quasi ovunque senti l’odore, rintracci le impronte di quella antica dominazione sulle donne.
Una dominazione nella quale la violenza tiene insieme i lembi tra “prima“ e “dopo”. Tra un passato di figure femminili mute e invisibili e un presente nel quale le donne si muovono da protagoniste. Si sono messe a parlare. Benché continui siano i tentativi di strappargli la parola da parte di chi minaccia, perseguita, sfregia uccide. Sono uomini che sragionano, resi folli dalla sensazione che quel corpo e quella mente gli stanno sfuggendo.
In questi tempi c’è però un’altra violenza (soprattutto maschile) squadernata davanti ai nostri occhi. Colpisce in luoghi lontani: bambini cristiani, ragazzini sciiti, militari, turisti occidentali. Deflagra nelle nostre città, all’aeroporto, nella metropolitana, al ristorante. Inscena l’apocalisse della fatalità, l’insensatezza del caso. Impiega chiodi, pezzi di vetro, viti per seminare morti e feriti.
Di fronte alla violenza sessuale, le donne hanno imparato a prendere in mano la propria vita, ma qui è diverso.
Un elenco mortifero scandisce le nostre giornate: trenta bambini uccisi vicino alle giostre del parco pubblico di Gulshan-e-Iqbal Park, a Lahore, Punjab pakistano; viaggiatori massacrati allo scalo internazionale Zaventem, hall delle partenze, banco American Airlines, aeroporto di Bruxelles; gente saltata in aria mentre aspettava alla fermata degli autobus, nel centro di Ankara; spettatori bersagliati al concerto degli Eagles of death metal al Bataclan; turisti sorpresi in un resort della Costa d’Avorio; ragazzini caduti al termine di una partita di calcio a una quarantina di chilometri a sud di Baghdad.
Ha “un perché” tutto questo?
Non bastano le spiegazioni che pure racchiudono, ognuna, un ritaglio di autenticità. Certo, gli errori dell’Occidente; le amicizie pericolose dell’Europa. L’aver lasciato che si moltiplicassero i gruppi radicalizzati dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria. E poi, è cresciuto l’odio nei confronti dei miscredenti (che saremmo noi). La spinta a “punire” quanti (sempre noi) hanno a disposizione la libertà. Gesti vendicativi per una condizione di marginalità, di ghettizzazione (a Moelenbeck, uno dei municipi di Bruxelles, la disoccupazione giovanile è molto alta).
Come si risponde, come si reagisce, come si resiste all’interruzione feroce del tran tran quotidiano, alla paura di essere trasformati in possibili bersagli?
Con l’indifferenza (“Non accendo più la televisione”), l’amalgama (“Tutti gli arabi sono terroristi”), l’autocensura (“Sono problemi troppo distanti da noi”), la ricerca della nicchia parentale-amicale (“Tanto, quello che conta è il futuro delle persone che amo”), la resilienza (“Evito di prendere la metropolitana e non vado in luoghi affollati”), il rinserramento nelle case, la costruzione di muri per fermare i migranti. Ma esiste anche il lavoro, la generosità per accogliere chi ha attraversato il fango, le montagne, il mare, il deserto.
Io ritengono efficace la politica delle donne. Quella che si fida e si affida alle relazioni. Che scambia linguaggi, discorsi, idee. Che crede nella passione e nella modificazione attraverso la pratica politica, gli incontri, le riflessioni, gli appuntamenti collettivi.
Assistiamo in questi mesi alla discussione assai intensa che attraversa il femminismo quanto alla gestazione per altri. Anche qui si affaccia la violenza tra il mondo ricco che abitiamo e la disperazione delle periferie globali. Torna il conflitto patriarcale tra maschi e femmine? Qualcuna sostiene che gli uomini vogliono riappropriarsi con la tecnica, con i soldi, della maternità strappando alle donne il loro, il nostro potere riproduttivo.
Certo, la maternità rappresenta un elemento fondamentale nella vicenda femminile. Tuttavia, l’enfasi sul materno rischia, insieme all’espulsione dalla scena della riproduzione del soggetto maschile, paterno, di guardare alle donne esclusivamente come madri, di arrestarsi alla capacità del corpo di generare.
E’ rifuggita da questa enfasi Paola Regeni che, partendo dalla propria storia affettiva, ha chiesto verità non solo per il figlio: “Giulio non è un caso isolato”. In quel preciso momento della conferenza-stampa, Paola si è occupata degli altri: giornalisti, ricercatori, studenti, sindacalisti inghiottiti dalle carceri egiziane. Ha ribaltato la cura (figura che si lega al simbolico materno) traducendola nella capacità di osservare il dolore con lucida empatia e di rompere il silenzio di fronte alle violenze del mondo. Pubblicato anche sulla 27 ora del Corriere della Sera – (6 aprile 2016)
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