logo2 Zappitelli Ercolani Luisa

zappitelli 2I miei genitori avevano in affitto un podere. C’erano i partigiani nascosti nella zona, anche Venanzio Gabriotti, giovane capo partigiano, che veniva da mio padre Francesco e mia madre a prendere il latte. Erano amici. Venanzio è venuto da noi, di notte, pochi giorni prima che lo prendessero perché aveva fame e mia madre gli ha fatto la ciaccia (torta al testo), con il prosciutto che gli piaceva tanto. (ndr. Venanzio Gabriotti fu fucilato sulla piazza di Città di Castello due giorni dopo il rastrellamento del 7 maggio ’44 a Pietralunga, Medaglia di Bronzo al Valor Militare per i sacrifici della popolazione, l’attività partigiana e la Brigata Proletaria d’urto San Faustino che l’8 settembre 1943 l’aveva dichiarata ‘zona libera’ scacciando i Repubblichini).

Al tempo non si poteva essere liberi di esprimere le idee ma in casa nostra siamo sempre stati liberi nelle nostre idee e non ci sono mai stati problemi tra maschi e femmine, eravamo tutti aperti, ascoltavamo la radio.

Mi è rimasto impresso che era ancora caldo, forse dopo l’8 settembre, una sera tardi ha bussato alla porta un disertore che aveva chiesto aiuto; gli altri non gli hanno dato niente mentre mio marito Gualtiero gli hanno dato un paio di pantaloni e una camicia e in fretta lo hanno rivestito. Lui voleva lasciare la divisa per dare qualcosa in cambio ma Gualtiero non l’ha voluta, gli ha detto di gettarla lontano, gli ha insegnato i sentieri della macchia. In cambio, l’uomo gli ha dato la sua gavetta di alluminio con inciso il nome e un disegno, fatto con un coltellino o con una forchetta, che sembra di una lama, di un’arma bianca. L’abbiamo ancora in casa e i miei genitori sono sempre stati curiosi di sapere che fine avesse fatto, se fosse riuscito a tornare a casa, nel Sud, dai suoi figli. Aveva la smania di ritornare.

Anche durante la guerra andavo con le amiche a ballare e siccome stavamo un po’ meglio degli altri e avevo qualche gioiellino, lo prestavo. Una volta ho prestato una collana a un’amica per andare a una festa e  lei non voleva prenderla perché le sembrava troppo bella e voleva togliersela quando ha visto che c’era il padrone perché aveva paura che la rimproverasse ma glielo ho fatta tenere, non doveva avere paura.

Un nostro vicino di casa era uno dei capi del Pci della zona e ho saputo che anche le donne votavano dai loro discorsi. C’erano uomini e anche donne che giravano a far comizi nelle campagne. Anche prima della Liberazione c’erano donne che giravano per aiutare.

Un giorno, il parroco ha detto a mio padre Francesco e a mio fratello Pasquale che avrebbe regalato a uno il cappello e all’altro una camicia se avessero votato D.C., ma loro hanno rifiutato.

Avevo 35 anni quando ho votato per la prima volta nella scuola di Belvedere, frazione di Città di castello;  ero sposata, avevo già due maschi e la terza, Anna, nata da poco. Sono rimasta vedova dopo la sua nascita.

Sono andata a votare con la famiglia e con le amiche che sono riuscita a convincere. Ho votato in una cabina chiusa con la tendina e ho votato Repubblica e la sera abbiamo fatto festa noi donne, dicevamo «A mo’ comandamo come gli omini».

Da quel giorno ho sempre votato, non mi sono mai tirata indietro. Sono andata a votare, ogni volta, sono settant’anni che voto. Sono andata anche al Referendum delle trivelle. Avevo male a una gamba ma ho preso le pillole e sono andata al seggio con mio figlio Dario (ndr. seggio n. 51, scuola elementare “Rignaldello” di Città di Castello) e ho votato da sola nella cabina. C’era tanta gente che mi vuole bene. Lo dico sempre che bisogna andare a votare, non arrendersi.

Ho sempre lavorato. Insieme a mia madre tessevo la tela e curavo la casa. Usavo la vespa per muovermi e l’ho guidata fino ai novantacinque anni, adesso mi portano dietro, con il casco.

Abito con mia figlia Anna.

Insieme a mio nipote, Gualtiero Ercolani, veterinario, che fin da piccolo ha avuto la passione dei canarini, allevo centinaia di canarini gialli e bianchi. Ci vuole molta cura per molte ore al giorno. Li alleviamo e li selezioniamo. Abbiamo vinto molti premi, medaglie d’oro e trofei (es. Internazionale di Romagna, a Cesena).

 

Fonte: la figlia, Anna Ercolani «Mia madre è il simbolo e l’orgoglio della nostra famiglia e della nostra comunità. È un’autodidatta che si è fatta una gran cultura leggendo in maniera esagerata, lo dico da insegnate. Ha sempre letto qualsiasi cosa le capitasse per le mani, anche un pezzo di carta preso da terra e soprattutto libri di storia. Non solo ha sempre votato, in ogni occasione ma ha sempre detto di andare a votare, che la gente è morta per farci votare. É sempre stata una donna emancipata e ha sempre cercato di emancipare le altre. Una quindicina d’anni fa, con la mia classe di scuola media, ho fa una ricerca sui Gruppi di difesa della donna, attivi in questa zona, una cosa di mezzo tra le partigiane, le infermiere e le dame della carità. Andavano anche in campagna ad aiutare le donne e gli uomini, a portare viveri, abiti, lettere dal fronte.

Il giorno dopo il Referundum del 17 aprile, siamo stati ricevuti dal sindaco, Luciano Bacchetta, che ha sottolineato il valore civico, l’esemplare attaccamento e rispetto delle istituzioni di un gesto compiuto a 104 anni. Lei ha risposto: ‘non ho fatto nulla di strano. Sono onorata di appartenere a questa comunità, alla mia città e di osservare i diritti e i doveri che prevede la nostra Costituzione.’  Ha ringraziato tutti, anche i mass media che hanno fatto diventare il voto un evento.

Mia madre è la mascotte del Vespa club di Città di Castello ed è la decana tra chi alleva canarini gialli e bianchi. Ai premi nazionali e internazionali ha aggiunto un premio ‘ad honorem’ come più longeva allevatrice nel campionato italiano di Pesaro. Mia madre fa ogni cosa con dedizione e  passione.

 Ndr. Alla signora Luisa, anche decana della nostra ricerca sulle donne al voto nel 1946, i saluti e i ringraziamenti di tutte noi per la sua esemplare autorevolezza e libertà.  Fonte: la figlia, Anna Ercolani

 

EMILIA GOBBIN VED. RICCI     

RICCI 1 Abitavo nel Rione San Lorenzo, all’angolo di Via dei Reti, davanti alle rotaie del tram 11, tra lo Scalo San Lorenzo e Porta Maggiore. Mio padre aveva una falegnameria, con magazzino negli uffici commerciali dello Scalo. Oltre le rotaie c’erano i prati.

Mio padre, che si occupava del suo lavoro e dei suoi operai e ci ha sempre tenuto vicine, ben guardate, erano tempi pericolosi. Non c’era niente di sicuro. Il quartiere era commerciale e periferico, non c’erano comizi nè manifestazioni.

Mia sorella ed io non ci siamo mai occupate di politica, andavamo a scuola e aiutavamo in casa e nella falegnameria. Io frequentavo le commerciali all’Istituto E. Natal e davo una mano a papà per le pratiche aiutavo papà. Andavamo al centro solo per sbrigare le pratiche negli uffici.

Quando andavamo al Verano passavamo da una porticina laterale sempre aperta, intorno c’erano solo campi, e da quei campi sono arrivati gli Americani che salivano da Napoli e venivano su dall’Appia e dalla Tiburtina. Li abbiamo visti attraversare le rotaie. Mio padre ne fece entrare tre o quattro in magazzino, dando loro qualcosa, trattandoli bene perchè non voleva che salissero in casa dove c’eravamo io e mia sorella.

Quando hanno bombardato il quartiere di San Lorenzo e suonavano le sirene, gli operai sono fuggiti. La gente s’infilava nei portoni. Mio padre ci ha fatto riparare sotto le arcate del magazzino poi, mentre tutto crollava e c’era un polverone di calcinacci, ci messo la testa nell’acqua del lavatoio.

Tutte le case avevano al piano terra o nello scantinato due o tre grandi lavatoi per fare il bucato; in una vasca s’insaponavano i panni e nell’altra si risciacquavano.

Le bombe cadevano molto vicino e siamo state così con la testa nell’acqua, per tre ore, terrorizzate. Quando tutto è finito ci siamo affacciate sulla strada che non c’era più, non c’erano più le rotaie del tram 11, neppure i binari dei treni e nemmeno le case davanti.

Papà aveva un amico che ci ha ospitato nel suo appartamento vicino a Piazza Bologna. Siamo andati a piedi fino lì, tutti sporchi di polvere e siamo vissuti da sfollati finché mio padre ha ricostruito con le sue mani la falegnameria e la nostra casa, dov’erano prima.

Da noi, nella parte esterna del quartiere di San Lorenzo, dove tutti lavoravano, non ci sono state manifestazioni e neppure comizi per il voto alle donne e non ho visto manifesti.

Queste cose le facevano al centro ma a Roma la gente non va al centro, se lavora. Papà non si occupava di politica ma sentivamo qualche chiacchiera.

Io ho votato Repubblica mentre mia madre Monarchia. Non si è parlato tanto del voto delle donne da noi; continuavamo a lavorare e nella mia vita ho continuato a farlo.

Mia figlia Bruna invece è sempre stata attenta alla politica e specie a quella delle donne.

 

ROSA RIZZUTO LAURO 

VANDA MAMMALa mia era una famiglia di agricoltori ma io stavo in casa e facevo tutto quello che serviva. La gente che faceva i comizi ci ha detto che potevamo votare e ne sono stata felice.

Avevo 23 anni nel 1946 e sono andata a votare insieme a 13 parenti: genitori, zii e zie, non le mie sorelle che erano più piccole. Ci siamo messi in fila. C’era anche mia nonna di 82 anni che piangeva perché i preti le avevano detto che se avesse votato il Partito Comunista sarebbe andata all’inferno e così ha votato Democrazia Cristiana ma quando ha vinto il PCI il paese ha fatto festa.

Il nostro paese aveva sofferto molto sotto il Fascismo e sotto i Tedeschi e anche sotto i terribili bombardamenti americani.

Mi ricordo che durante gli ultimi anni del Fascismo, Pietro Ingrao era nascosto in una casetta nel bosco e gli abitanti del mio paese gli portavano da mangiare le castagne arrostite.

Io ero molto piccola e stavo in paese con mia mamma e i miei fratelli soprattutto d’inverno.

D’estate si stava tutti in Sila in un terreno preso in affitto vicino alle terre del Barone Baracca, che si chiamava Valle capre. La casa era costituita al primo piano da 2 stanze dove si cucinava, mangiava e si dormiva. Non c’era la corrente elettrica, né l’acqua, né il gabinetto. Poi c’era la soffitta. A pianterreno c’era il magazzino (dove conservavamo i caciocavalli, le ricotte, i prosciutti, le soppressate, i capocolli, le salsicce prodotti durante l’anno) e una stalla per i maiali e i polli.

Qui a Valle capre mio papà coltivava la terra e allevava ovini e alcuni bovini: le nostre mucche erano magre e facevano poco latte perché avevano poca terra per cui di tanto in tanto mio papà regalava una ricotta o un caciocavallo ai guardiani delle terre del barone Baracca; questi lavoratori, pagati pochissimo, per sfamare le famiglie chiudevano un occhio e di nascosto permettevano alle nostre mucche di mangiare erba abbondante dei campi del barone. Il giorno dopo mungevamo molto latte.

I miei genitori mi hanno tolto da scuola all’inizio della 3° elementare perchè «avevo otto anni ammazzati» e dovevo aiutare per tirare su i figli minori: due sorelle e cinque  fratelli.

Oltre ai lavori di casa (cucinare, rigovernare, pulire la casa, andare a prendere l’acqua), dovevo curare l’orto, i polli e i maiali, aiutare a fare il bucato con la cenere e ogni 15 giorni a fare il pane.

Ai Comunisti inviati al confine in questo paese della Sila, i bambini portavano nascosti sotto la maglietta i giornali acquistati per loro conto. Dopo la Liberazione molta gente è emigrata, anche molti miei parenti, specie in Canada e in Argentina. Da sposata, nel 1956 sono andata a vivere a Parma.

Fonte:  la figlia, Vanda Lauro