Come se io non fossi umana…
Un rapporto di Human Rights Watch denuncia la totale assenza di diritti per il milione e mezzo di collaboratrici domestiche emigrate dai vicini paesi dell’Asia e dell’Africa in Arabia Saudita per sostenere le loro poverissime famiglie La femminilizzazione dell’emigrazione dalle Filippine, dallo Sri Lanka e dal Nepal rappresentino ormai tra il 50 e l’80% sul totale dei migranti da questi paesi.
La maggior parte di queste migranti, spesso analfabete e poverissime, vengono reclutate come collaboratrici domestiche e inviate in Medio Oriente con lo scopo di mantenere le proprie famiglie e con le loro rimesse contribuiscono, secondo dati del Fondo monetario europeo, fino al 13% del Pil dei propri paesi di origine.
_ Aiutati dalle condizioni di estrema necessità delle migranti, reclutatori senza scrupoli forniscono consapevolmente false informazioni sulle condizioni di lavoro nei paesi di destinazione e spesso ne abusano anche fisicamente.
_ Inoltre il restrittivo sistema di rilascio dei visti, che vincola le lavoratrici migranti ai loro datori di lavoro, consente a questi ultimi di impedirgli legalmente di trovarsi un posto migliore e anche di fare ritorno a casa visto che, anche se una risoluzione dell’Onu lo proibisce, sono sempre i “padroni” a custodirne il passaporto.
Un rapporto di 133 pagine, intitolato [As If I Am Not Human: Abuses against Asian Domestic Workers in Saudi Arabia->http://hrw.org/reports/2008/saudiarabia0708/] pubblicato lo scorso luglio da Human right watch, frutto di due anni di ricerca, raccoglie 142 interviste a lavoratrici domestiche, alti funzionari del governo e intermediari di lavoro in Arabia Saudita e nei paesi da cui vengono reclutate le ragazze.
Per comprendere il quadro giuridico che consente la sostanziale impunità dei pesantissimi abusi documentati nel rapporto bisogna premettere che il Diritto del lavoro in Arabia, modificato nel 2005, {{nega esplicitamente alle collaboratrici domestiche le protezioni garantite agli altri lavoratori}}, come ad esempio il giorno libero settimanale, il tetto di 11 ore giornaliere di lavoro, ecc… e vieta loro di rivolgersi ai tribunali del lavoro.
Per questa ragione, anche in presenza di prove mediche inconfutabili e di confessione degli abusi da parte dei datori di lavoro, rarissimi sono i casi in cui questi ultimi sono stati condannati per aver inflitto punizioni corporali e umiliazioni, segregato e limitato la libertà personale, violentato e affamato le proprie collaboratrici domestiche alle quali, naturalmente, non è stato neanche corrisposto il dovuto salario.
_ Quel che colpisce di più nel Rapporto di Human Rights Watch è la situazione di {{estrema solitudine di queste donne}}, emigrate per necessità e spesso quasi contro la loro volontà, che trovano in Arabia una situazione più sfavorevole alla comunque minima libertà femminile di cui godevano nei propri paesi.
_ Il divieto imposto loro di fare visita alle loro famiglie, di scrivere e ricevere lettere, di telefonare per sentire una voce amica nei momenti di sconforto, accresce l’isolamento tra le pareti domestiche e facilita l’impunità per tutti gli abusi, psicologici e fisici.
Moltissimi sono i casi documentati di {{complicità femminile negli abusi}}, soprattutto in quelli di natura psicologica ma anche nelle percosse e nell’inflizione di vere e proprie torture quali l’obbligo ad ingerire sostanze nocive o il taglio dei lobi delle orecchie e le bastonate.
{{Pesante la responsabilità delle datrici di lavoro}} nell’impedire che le collaboratrici domestiche mangiassero a dovere o comunque cibi di qualità, così come molto documentata è la propensione a negare la veridicità degli episodi di violenza sessuale perpetrati da mariti, figli, fratelli, ecc.
_ Va comunque detto che i {{blandi interventi}} documentati di “padrone” che intercedono in favore delle “schiave” finiscono quasi sempre con botte e umiliazioni per entrambe.
Oltre alle {{difficoltà di procurarsi un avvocato e un interprete}}, sul capo delle schiave che avessero in mente un atto di ribellione contro i propri carnefici incombe la possibilità di essere a loro volta accusate di essere streghe, ladre o infedeli, tutti reati che facilmente possono prevedere pene fino a dieci anni di carcere e tra 60 a 90 frustate.
_ Non va meglio a quelle di loro che una volta riuscite a tornare a casa devono {{affrontare il disprezzo dei loro parenti}} per essere state vittime di abusi sessuali e averli denunciati.
La {{paura di essere incarcerate o di dover vivere in qualche centro di accoglienza}} lontano dai loro famigliari e senza la speranza di fare ritorno al proprio paese, spinge molte delle donne vittime di abusi a non denunciare i loro datori di lavoro o a ritirare prontamente le accuse anche quando sono in possesso di prove inconfutabili
Neanche le rappresentanze diplomatiche dei loro paesi di origine infatti sembrano soccorrere con tempestività queste malcapitate migranti. Con la scusa che la domanda di assistenza supera le risorse disponibili per ciascuna ambasciata, le lavoratrici, soprattutto quelle provenienti da Indonesia e Sri lanka, si trovano spesso costrette a vivere in centri sovraffollati e malsani.
“Il governo saudita ha alcune buone proposte di riforma, ma sono anni che ne discute senza procedere ad una effettiva riforma del settore”, ha detto Varia, ricercatrice specializzata sui temi dei diritti delle donne per Human Rights Watch. “
_ Il ministero saudita degli affari sociali, in cooperazione con le forze di polizia, ha aperto {{un centro di accoglienza a Riyadh}} per aiutare le lavoratrici domestiche a rivendicare i loro salari e/o tornare a casa, tuttavia, molto spesso le trattative svolte dal personale del centro si concludono con la scelta obbligata delle lavoratrici tra il salario arretrato e la libertà.
Human Rights Watch ha chiesto al governo saudita di indagare e reprimere abusi dei datori di lavoro domestico e di proteggere le lavoratrici, soprattutto quelle incinte a seguito di abusi sessuali, da {{false accuse per ritorsione}}.
_ Inoltre ha esortato l’Arabia Saudita a cooperare in modo più efficace con i paesi di origine di manodopera per {{monitorare le condizioni di lavoro delle lavoratrici domestiche}}, facilitandone il salvataggio e il recupero dei salari non pagati, e stabilendo meccanismi rigorosi per le agenzie di intermediazione del lavoro.
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