IMOLA (Bologna) – La videoinstallazione del fotografo Francesco Francaviglia in mostra alla Rocca Sforzesca fino al 31 luglio
“Volti invisibili” di donne migranti segnati da guerra e schiavitù. “Queste donne sono sopravvissute al deserto e al mare, i loro corpi hanno subito ogni atrocità, questo lavoro pone un interrogativo sul concetto di vulnerabilità e sulla sua riconoscibilità”
“Ricordare i diritti sanciti dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne”. Risponde così il fotografo Francesco Francaviglia a chi gli chiede qual è l’obiettivo di “Volti invisibili”, una videoinstallazione con le fotografie scattate a donne migranti, rifugiate o richiedenti protezione internazionale accolte nei progetti Sprar, nei centri di accoglienza o in quelli antiviolenza. “Questo lavoro pone un interrogativo sul concetto di vulnerabilità e sulla sua riconoscibilità – racconta Francaviglia – Le donne qui fotografate sono sopravvissute al deserto e al mare, i loro corpi hanno subito ogni atrocità, alcune hanno partorito in condizioni indicibili… Bisogna saper leggere il concetto di vulnerabilità e pensare a processi di integrazione che le identifichino come soggetti autonomi e capaci di scegliere”.
Francaviglia è siciliano nato nel 1982, è stato autore dell’anno Fiaf (Federazione italiana associazioni fotografiche) nel 2014, ha esposto il lavoro “Le donne del digiuno – contro la mafia” agli Uffizi di Firenze mentre “Mediterranean Darkness – Ritratti dalle stragi” è stato in mostra al Macro di Roma. Il progetto “Volti invisibili” è stato realizzato in collaborazione e con il sostegno dell’Associazione Trama di terre, è promosso dalla Rete Women (Women of mediterranean east and south european network), con un audio project a cura di Carlo Gargano e dell’attrice Giuditta Perriera, e fa parte delle iniziative del Comune di Imola in occasione della Giornata mondiale del rifugiato del 20 giugno.
Per l’associazione Trama di terre promuovere “questa mostra è anche un modo per restituire volti e storie a queste donne che abitano la città e che, come le altre chiedono di essere riconosciute, accolte, rispettate”. La videoinstallazione è visibile alla Rocca Sforzesca di Imola (piazzale Giovanni dalle Bande Nere) fino al 31 luglio.
Com’è nato il progetto “Volti invisibili”?
Negli ultimi due anni ho sentito la necessità, come persona e come fotografo, di capire a fondo queste tragedie umane. Ho trascorso molto tempo con ragazze e ragazzi, ospiti nei sistemi di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, nei centri accoglienza e antiviolenza. Non c’è voluto molto a rendersi conto che ai traumi che accomunano tutte le persone in fuga da guerre, dittature, povertà e sfruttamento, le donne portano con sé i segni di soprusi e violenze di genere, cioè che colpiscono le donne in quanto tali. Ho deciso allora di concentrare questo lavoro sulle loro storie, e ciò è stato possibile anche grazie al sostegno della Rete Women e dell’Associazione Trama di terre.
Com’è stato l’incontro con le donne che hai fotografato? Hai ascoltato le loro storie?
C’è una piccola frase, fra le loro, che da tempo mi ossessiona, e che nella sua drammatica semplicità riassume le loro storie: “Io urlavo e cantavo”. A tal proposito il sostituto procuratore antiterrorismo e antimafia Franca Imbergano ha scritto: “Portatrici di storie diverse, talune terribili, che sei costretto a intuire e perciò a vedere finalmente. Sono storie di lotte, di vittorie e di sconfitte e attraversano tutti i drammi del nostro tempo. Storie di donne migranti in fuga dalle guerre e dalle carestie che si confondono e si intrecciano con quelle delle donne vittime della tratta, rese schiave con l’inganno e la violenza. Storie particolari, individuali e collettive e tuttavia simili tra loro per il rischio di morte e le violenze subite…”.
È stato difficile conquistare la fiducia di queste donne perché si lasciassero fotografare?
Certo, lo è stato. Le loro storie sono in apparenza simili, ma ognuna estremamente complessa. C’è un gesto, simbolico, che mi ha restituito tutta la fiducia di cui un ritratto necessita: sciogliersi i capelli. È accaduto con una delle donne fotografate, la terza volta in cui l’ho incontrata. Come a potersi finalmente fidare, dopo aver assistito in Libia all’uccisione di 27 persone.
Non è la prima volta che racconti le donne, prima quelle contro la mafia ora le migranti. Cosa ci raccontano i loro volti?
Troppo spesso ancora, non l’azione, ma la voce delle donne fatica a emergere e la mia fotografia vuole essere un tentativo di dar voce a quella parte della società che spesso non ne ha. Io racconto le storie attraverso i volti. Nei miei ritratti i volti emergono spesso da uno sfondo scuro e mi piace pensare che il filo conduttore di questa ricerca sia la manifestazione del coraggio. Quel coraggio in grado di cambiare il proprio destino, di trasformare il proprio percorso e di conseguenza il tessuto sociale. (lp)