Il libro di Chiara Saraceno “Il lavoro non basta” in un articolo di Ilaria Marotta
Il 24 aprile si è svolta a Napoli, nello spazio Nuova Guida, la presentazione del libro di Chiara Saraceno “Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli ani della crisi” (Feltrinelli), con l’autrice erano presenti Enrica Amaturo (Direttrice del Dipartimento di Scienze Sociali), Lorenzo Zoppoli (docente di Diritto del Lavoro presso l’Università Federico II) e Andrea Mornioli (Cooperativa Dedalus). Numerosi quesiti affrontati nel dibattito: come si giunge alle diverse definizioni di povertà? Si parla di povertà relativa, ma relativa rispetto a cosa? Lo standard deve essere fissato a livello europeo o nazionale? Inoltre, in Italia si è sempre parlato di livelli minimi di assistenza, ma nella pratica, perché non si è mai implementato niente?
Quando si parla di povertà relativa, dice la Saraceno, il termine di paragone è il tenore di vita medio, mentre nel caso della povertà assoluta il riferimento è a un paniere di beni definito essenziale. Il punto intermedio tra questi due è la deprivazione materiale ossia la mancanza di elementi base individuati da una lista definita. La sociologa torinese spiega anche il concetto di povertà integrata -ripreso da Paugam che a sua volta riprende Simmel- il quale si basa sul presupposto che l’esperienza della povertà sia costituita dall’interazione tra le condizioni economiche oggettive e dal modo in cui la povertà è percepita e regolata.
In Italia si assiste costantemente ad una sconfitta culturale nei discorsi sul welfare: l’idea che passa è quella dell’impossibilità di averne uno sia per i costi troppo elevati che esso comporterebbe, sia per l’opinione comune che lo identifica come uno spreco di risorse pubbliche. In effetti il tema della povertà è assente nel discorso pubblico e nell’agenda politica e la Saraceno, in questo libro, ne passa in rassegna le possibili motivazioni: una potrebbe essere che non si sia puntato sul welfare nel periodo di benessere, quando era opportuno farlo, e ora che la crisi è dirompente all’interno della società non si può più recuperare questo deficit e quindi viene taciuto.
Interessante è capire la scelta del titolo del libro: “Il lavoro non basta”. Il titolo è volutamente polisemantico sia perché non c’è abbastanza lavoro, sia perché è la domanda di lavoro ad essere insufficiente. Il terzo significato è che non sempre avere un lavoro, anche adeguatamente remunerato, sia sufficiente: c’è sempre una questione di equilibrio tra il reddito e il numero dei familiari. Il sottotitolo “La povertà in Europa agli anni della crisi” indica che bisogna capire in che modo il caso italiano sia diverso o simile agli altri casi nazionali, anche perché la povertà è peggiorata quasi ovunque nell’Unione Europea, con ritmi diversi.
Nel dibattito internazionale, inoltre, si discute dei working poors – lavoratori poveri – i quali durate gli anni della crisi sono aumentati in seno alle famiglie. Riportando qualche dato vediamo che i lavoratori a rischio povertà su base familiare sono maggiormente i maschi e le mamme sole, mentre i lavoratori a più basso salario sono i giovani e le donne. Questi due fenomeni devono essere trattati separatamente in quanto il salario e la capacità di mantenimento del reddito sono due fenomeni distinti. Bisogna tener presente, inoltre, che l’aumento dell’occupazione non va necessariamente a favore dei ceti più bassi: non basta aumentare il numero di occupati per risolvere il problema; anche le politiche che pretendono di risolvere la povertà focalizzandosi solo sull’ occupazione non sono sufficienti. Inoltre in una società in cui la condizione di povertà è regolata, e quindi diffusa, può succedere che i poveri ricevano assistenza al prezzo della perdita dei loro diritti di cittadini e di essere adulti, in cambio dell’assistenza viene infatti richiesta una contropartita.
Per quanto riguarda la situazione delle donne nell’ambito lavorativo, spiega Chiara Saraceno, in questa situazione di crisi il tasso di attività femminile è tra i più bassi a causa dell’insufficiente sostegno per la conciliazione lavoro-famiglia. Il picco di occupazione femminile che si stava registrando negli anni precedenti si è arrestato, mentre quello di occupazione maschile ha subito un consistente declino. Determinando una riduzione del gender gap, in alcuni casi si è però verificato che il percettore unico di reddito familiare diventasse la donna stessa.
Per la situazione della popolazione LGBT si può affermare che nel caso degli omosessuali, le lesbiche e i bisessuali le discriminazioni avvengono maggiormente all’interno del contesto lavorativo – dovuti alla “scarsa socialità” – per le persone transessuali, invece, la situazione è problematica già all’ingresso nel mercato del lavoro, sia nel momento in cui sono in transizione sia alla fine della transizione stessa. Il problema, purtroppo, è la loro visibilità, non solo fisica ma anche dovuta alla discrepanza tra l’aspetto fisico e l’identità anagrafica. (da osservatorioLGBT aprile 2015)