Come l’arte guarda il lavoro nel tempo della crisi
Vi proponiamo il saggio di Ada De Pirro dallo speciale Primo Maggio di Alfa+più : Il lavoro dell’arte, l’arte del lavoro, per l’interesse delle argomentazioni suggerite. Dobbiamo però far notare che l’autrice non usa il linguaggio di genere utilizzando un neutro maschile che non permette i necessari distinguo tra artiste e artisti o tra lavoratori e lavoratrici. Tutti soggetti che vivono in modo differente il senso di “angoscia, provvisorietà, vetrinizzazione, smarrimento o insicurezza” dell’essere umano contemporaneo.
Mentre soprattutto la fotografia continua a documentare il mondo del lavoro con marcato realismo, in generale l’arte, a partire dagli anni Sessanta e fino a poco tempo fa, sembra aver eluso il tema. Come si è visto nella mostra di video appena chiusa al MAST di Bologna, recensita su queste pagine da Antonello Tolve, il tema del lavoro, dell’industria, della fatica e della precarizzazione può anche assumere la dimensione visiva dell’opera “in movimento” che riflette con forza il senso di “angoscia, provvisorietà, vetrinizzazione, smarrimento o insicurezza” dell’uomo contemporaneo.
L’esplosione della crisi del lavoro nella società occidentale, e la drammatica condizione di sfruttamento nei paesi del terzo mondo e delle nuove potenze orientali, sembrano aver di nuovo sensibilizzato al tema anche artisti e curatori, come dimostrano l’ultima edizione di Manifesta e la Biennale di Venezia 2015.
What People Do for Money: Some Joint Ventures è il titolo dell’undicesima edizione della Biennale Europea Manifesta, tenutasi a Zurigo nel 2016 (catalogo edito da Stichting Foundation con i contributi di F. Berardi, H. Falckenberg, H. Fijen, S. O’ Reilly, M. Shishkin e J. Tanner fra gli altri). Per la città che ha visto nascere il movimento Dada cento anni prima è stato dunque scelto il tema del lavoro. Il curatore, l’artista tedesco Christian Jankowski, con questo titolo ironico sembra voler dare una direzione allo sguardo sulle varie attività lavorative che i trenta artisti invitati, provenienti da varie parti del mondo, dovevano esprimere con le loro opere. Nei mesi precedenti la mostra, gli artisti hanno frequentato e intervistato ognuno un lavoratore scelto tra le mille professioni censite a Zurigo. Successivamente hanno rielaborato i dati raccolti e creato le opere da esporre.
Il titolo dichiara dunque con grande semplicità da che parte osservare il lavoro – quello del guadagno. Come se Jankowski volesse mettere l’accento sulla tesi di Zygmut Bauman del lavoratore non più produttore ma consumatore. Al di là di qualsiasi ideale o ideologia, «lavorare» è lo strumento per ottenere i mezzi di sostentamento e si collega con certezza alla particolare condizione di Zurigo, operosa e ricca città della Svizzemoneyra, nazione che a sua volta rappresenta il cuore pulsante di una fiorente attività finanziaria e bancaria. La seconda parte del titolo gioca sull’accoppiamento artista/lavoratore da cui deve scaturire l’opera, trattata quindi come finalizzazione di un’operazione finanziaria. In una città in cui essere workalcholic non è considerato patologico e in cui i giorni di ferie sono pacificamente di numero inferiore rispetto alla norma, il tema scelto dal curatore assume anche il carattere di una indagine sull’identità ‒ sia del singolo che collettiva ‒ che riguarda gli svizzeri ma sicuramente tutti noi occidentali (oltre che gli stessi artisti). Il lavoro ci plasma e i tre principi che lo caratterizzano secondo un’analisi Herbert Marcuse di ottant’anni fa, ovvero durata peso e permanenza, trovano una loro attualità nella constatazione di una sempre maggiore pervasività delle attività lavorative nella vita degli uomini (paradossalmente anche quando il lavoro non c’è o lo si perde), specialmente grazie alla fluidità non misurabile del lavoro informatizzato.
Dopo decenni in cui l’arte non sembra essersi più occupata direttamente del tema del lavoro, è dunque interessante notare come al culmine di una crisi mondiale ‒ in cui il lavoro rappresenta uno degli aspetti più importanti di una crisi sociale molto ampia ‒ un artista-curatore e gli artisti da lui convocati mettano al centro della loro opera questo tema. Più di quanto sia accaduto alla Biennale di Venezia dell’anno precedente in cui l’argomento è stato trattato dalla prospettiva del terzo mondo o delle emergenti economie orientali. La 56 a Biennale di Venezia è stata curata da Okwui Enwezor con l’intento di “chiamare a raccolta le forze immaginative e critiche di artisti e pensatori per riflettere sull’attuale stato delle cose”, cercando quindi il confronto diretto con il mondo contemporaneo. Scegliendo un taglio “politico” Enwezor ha dato spazio nel catalogo a riproduzioni di pagine del Capitale di Marx e delle pagine dattiloscritte della lettura che ne fa Althusser, e poi del Discorso e del Contratto sociale di Rousseau. Durante tutta la mostra venne inoltre fatta una lettura performativa dello stesso Das Kapital con lo scopo di esplorare il testo per percepirne “l’aura, gli effetti, le ripercussioni e gli spettri” sui nostri giorni. A Venezia il tema del lavoro fu solo sfiorato con poche opere anche se molto interessanti, di cui citiamo a titolo esemplificativo quella dell’artista sudafricano Joachim Schönfeldt (1958) il cui lavoro sia su carta che video ritrae la classe operaia isolata nella società e esclusa dal mondo della cultura; o dell’argentina Mika Rottemberg (1976), che con un intelligente e vulcanico lavoro video si sofferma sulla condizione del lavoro, la sua femminilizzazione e sugli effetti della globalizzazione ritraendo soprattutto orientali al lavoro nelle fabbriche e nelle fattorie, e creando metafore sulla monetizzazione delle nostre relazioni affettive.
Ma, a parte il caso dell’argentino-tailandese Rirkrit Tiravanija (1961) che allestisce come opera una piccola fabbrica artigianale di mattoni che poi vende direttamente ai visitatori, il lavoro viene affrontato fondamentalmente attraverso lo sguardo della fotografia e del video e concentrando l’attenzione su realtà di paesi non occidentali. Il legame che la fotografia contemporanea ha con il “sociale” ha radici negli anni Venti e Trenta, avvalorate dalla presenza in mostra di una raccolta di fotografie di Walter Evans.
Quanto prima delle mostre di Venezia e Zurigo l’arte si fosse, allontanata dal tema del lavoro, dopo l’attenzione prestata in anni di fervente attività legata alla ricostruzione del dopoguerra, testimoniata in Italia dall’importante collezione Verzocchi di Forlì, era già stato messo in evidenza da Germano Celant nella mostra del 2006 a Genova Tempo moderno, da Van Gogh a Warhol. Lavoro, macchine e automazione nelle arti del Novecento. Il curatore nel catalogo (Skira 2006) riflette sulla scomparsa del tema del lavoro dal mondo dell’arte a partire dagli anni Sessanta, per rimanere significativamente tra i soggetti della fotografia e dei video che spesso documentavano scioperi e manifestazioni. Nella sua puntuale analisi Celant associa la scomparsa della tematica legata al lavoro al momento in cui l’arte inizia il processo di derealizzazione e dematerializzazione, in cui essere e macchina passano dalla contrapposizione all’equivalenza, tra essere vivente e artificiale, tra originale e simulacro.
Il teorico dell’Arte povera ‒ una corrente in cui i materiali grezzi del lavoro artigianale e industriale (ferro, pietra, carbone, mattoni e altro) usati ad esempio da Kounellis e Penone o le attività manuali come la tessitura di Boetti o le architetture artigianali di Mario Merz alludono da una prospettiva non-alienante alle attività del lavoro, compreso quello artistico ‒ ci aiuta a leggere questo passaggio: “il processo di assottigliamento evidenzia come il riassorbimento dell’impegno abbia preso altre strade, che non sono più nell’ordine delle immagini e dell’iconografia, quanto nell’ordine dei segni e delle azioni in cui il medium dell’arte, sia esso pittura o scultura, televisione o film, fotografia e corpo diventi luogo di lotta e di lavoro”. È il crudo realismo di Salgado, Santiago Serra e altri, i quali si fanno testimoni di “un disegno di potere imperiale coerentemente programmato e attuato, irreggimentato da un sistema di controllo e di sorveglianza totale”, e che negli ultimi venti anni riaprono il tema ma visto dalla prospettiva dello sfruttamento dei poveri in territori dove le regole sociali non esistono e tantomeno le tutele dei lavoratori. Vengono così ripresi temi già trattati dai grandi fotografi di inizio XX secolo: Sander, Modotti, Hine e Evans. Sempre secondo Celant, adottando un atteggiamento scettico e disincantato, “cosciente della sua inutilità politica, l’arte fa sparire dal suo discorso l’iconografia dell’operaio o dell’impiegato, del manifestante e del rivoluzionario, che sono diventati simulacro di una credenza e di una fede, e rimuove ogni buon intento e proposito ‘figurali’ e ‘realistici’ dal suo fare”. Successivamente, dopo anni di durezza concettuale e comportamentale, l’arte degli anni Ottanta instaura, in una dimensione metastorica, la prevalenza della soggettività dell’artista. A fronte di questo atteggiamento, la fotografia e i video inaugurano quello che Celant definisce postrealismo, la nuova attenzione alla “realtà reale”, un mondo reale non più mimetizzato nella pittura e scultura ma documentato da immagini di grande impatto visivo, come ha confermato Lavoro in movimento a Bologna.
Mentre la fotografia e i video registrano realtà anche se lontane, il processo di dematerializzazione dell’arte e il conseguente allontanamento da temi sociali – che ci fa dimenticare anche la condizione dell’artista come lavoratore – coincide con l’inizio del processo irreversibile dell’informatizzazione del lavoro le cui estreme conseguenze rappresentano la “quarta rivoluzione industriale” che stiamo vivendo.
Tornando a Manifesta 11, dove ogni artista era accompagnato da un team formato da un art detective e un filmmaker, è interessante analizzare dove si sono indirizzate le scelte circa le tipologie di lavoratori con cui intessere il dialogo. Nessuno degli artisti invitati ha scelto operai, molti hanno scelto liberi professionisti (personal trainer, dentista, imprenditore, manager, psicanalisti, medici, ingegnere, traduttore, cantante d’opera, chef), pochi gli artigiani (mastro d’ascia, orologiaio, tolettatore), alcuni lavoratori dipendenti (insegnante, meteorologo, bancario, direttore di cimitero, hostess di volo). A completare il quadro vi sono anche un pastore protestante, un’atleta paraolimpica, un dottorando e una transgender: professioni queste che mettono l’accento sulle plurime accezioni del termine “lavoro”.
Nel catalogo ogni opera è accompagnata da un titolo e da un logo del lavoro elaborato per l’occasione, oltre a una memoria dell’esperienza scritta dal lavoratore stesso. Infatti la mostra era strutturata in modo che anche il professionista scelto desse la sua versione circa la propria condizione, in una sezione della mostra che riproduce il suo luogo di lavoro. Il dialogo tra artista e professionista ha espresso una pluralità di punti di vista e di media usati, dalla pittura all’assemblaggio, dall’installazione alla fotografia: anche per questo aspetto denotando un approccio, al tema del lavoro, non necessariamente realistico e documentario. A Zurigo è andata in scena, come si è detto, un atteggiamento lontano dalle ideologie o dalla dimensione della denuncia o dell’attenzione prestata a professioni disagiate (a parte la messicana Teresa Margolles che ha trattato il tema delle transgender uccise o scomparse in Messico, o Maurizio Cattelan che ha lavorato con un’atleta paraolimpica), per dare al lavoro una dimensione, a volte più ludica altre più seria, ma in genere decisamente empatica. In questo panorama colpisce il lavoro concettuale dell’artista greca Georgia Sagri, la cui opera è un contratto stipulato tra i due contraenti: il bancario e l’artista. Oltre alle altre sezioni della mostra dedicate all’indagine del mondo contemporaneo dell’arte e del lavoro, anche con sguardi incrociati, questo dell’artista greca è l’unico che tratti un argomento di stringente attualità socio-economica, drammaticamente vissuto dalla nazione da cui proviene.
Se, come sostiene Franco Berardi nel saggio in catalogo di Manifesta 11, il lavoro fa parte delle convenzioni socio-semiotiche che ci accompagnano, quando si parla di lavoro cognitivo è difficile ridurlo a standard uniformi, e quello dell’artista ricopre un ruolo particolare; anche perché, a certi livelli, ha finito per uniformarsi agli schemi imprenditoriali. L’artista contemporaneo è oggi più vicino alla figura dell’imprenditore che per avere successo deve adottare strategie di marketing sofisticate, proprie anche di altri liberi professionisti, che forse non a caso sono stati i più scelti come interlocutori, nella mostra. Gli artisti-professionisti sono a loro volta parte del mondo del lavoro essendo a vario titolo integrati in un mercato che segue le regole del commercio globale e della finanza.
La mostra di Zurigo è un esempio di come un’operazione artistica possa contribuire a mettere in relazione parti della società chiuse normalmente nella loro dimensione: a iniziare dal fatto che l’arte, come elemento di discontinuità, si può trovare anche in luoghi di lavoro come un crematorio o lo studio di un dentista. Come attività cognitiva, quella dell’artista può servire da esempio di come il lavoro possa essere ancora pensato in una dimensione empatica, volatilizzatasi nell’era dell’informatizzazione. Lo scambio intercorso tra gli artisti e i professionisti, ironicamente definito dal curatore joint venture, ha prodotto non solo le opere che sono state esposte ma anche la possibilità di sperimentare un confronto alla pari tra i due mondi. Gli artisti si sono messi nella condizione di lavoratori calati in una realtà che li mette a contatto con la frammentazione, la precarietà e le contraddizioni del mondo contemporaneo, anche se l’orizzonte di riferimento è una città ricca e attiva come Zurigo, che può essere considerata emblematica della condizione di buona parte del mondo occidentale.
Rispetto alla visione negativa del lavoro che avevano i dadaisti, per poi passare all’esaltazione che si poteva avere nel secondo dopoguerra, con la successiva polverizzazione di qualsiasi ideologia ai nostri tempi sembra prevalere una visione più laica in cui il lavoro è un tema aperto che, sulla nostra identità, pone diverse domande ma non pretende risposte univoche.