Marina Ballo Charmet, fenomenologia dell’incerto: l’infanzia
Articolo di Elisabetta Marangon su alfabeta2
- Un bambino corre a perdifiato sul ciglio di una strada costeggiata da alcune abitazioni e da campi agricoli coltivati, segni di un tessuto civile dal quale sembra essere escluso: l’ostinata ripetizione del filo spinato e delle barriere architettoniche accanto alla sua figura sembrano rimarcare, difatti, un confine per lui invalicabile. Antoine Doinel ha tredici anni e sta fuggendo dal riformatorio nel quale è stato rinchiuso a seguito del maldestro furto di una macchina da scrivere. Il suo incedere in un paesaggio che si spoglia con lentezza degli artifici urbani, è registrato pedissequamente dall’obiettivo di una cinepresa che ora lo precede, ora lo segue, ora si allinea parallelo a lui. Lo sorprende calarsi sulle dune di una spiaggia invernale, attende il suo primo contatto col mare, fino a quando Antoine avanza d’improvviso verso il suo occhio meccanico ricambiandone lo sguardo. La scena si conclude con una zoomata sul suo primo piano, congelato in un fermo immagine che deraglia la percezione visiva e mentale dello spettatore per la sua inattesa interpellanza.
È l’epilogo dei Quattrocento colpi, il primo lungometraggio di François Truffaut (premiato a Cannes nel 1959 per la miglior regia), «il film più libero del mondo. Moralmente parlando. E anche esteticamente» a detta di Jean-Luc Godard, nel quale l’autore riesce a ritrovare, secondo Jacques Rivette «un tempo unico nella luce […] la luce inqualificabile dell’infanzia. Guardatelo bene: questo film è personale, autobiografico, ma mai impudico. Non c’è nulla che denoti una qualche forma di esibizione». Un’opera rivoluzionaria della Nouvelle Vague, tra le più amate da Marina Ballo Charmet, rievocando la quale si apre il suo libro Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia, curato da Stefano Chiodi.
Sia Truffaut che Ballo Charmet intessono un dialogo aperto con i lettori a partire dalla rievocazione della propria infanzia: arricchita, per entrambi, da un confronto mai interrotto con i mentori di una vocazione artistica che si è formata in modo spontaneo, punteggiata da riflessioni interiori intrecciatesi di continuo con le sollecitazioni esterne. Ma se per Truffaut furono l’abbandono familiare e l’insofferenza verso le coercitive istituzioni scolastiche a spingerlo a cercare nella lettura e poi nella scrittura – critica e cinematografica – un’espressività esistenziale oltre che estetica, per la filosofa, psicoterapeuta e fotografa italiana, la maturazione intellettuale si colloca in un ambiente per molti versi contrario: «La mia relazione con l’arte viene da lontano, dalla casa dell’infanzia e dell’adolescenza, dal mestiere di mio padre. Sono cresciuta in mezzo all’arte, quella di avanguardia», confida nell’introduzione, «mi vengono in mente certi quadri appesi nella casa dove sono nata: l’ambiguo e l’incerto e il senso di mistero sospeso che li caratterizzava erano i loro punti di forza», mentre sulle pagine iniziano ad affiorare opere fotografiche e video, presentate secondo un ordine cronologico che, dalla fine degli anni Ottanta, abbraccia i primi anni del Duemila.
Come Il limite, serie itinerante in bianco e nero, realizzata a partire dal 1989 sulle coste della Bretagna, delle Landes e sul Delta del Po, incentrata «sull’idea del “non limite” tra terra, acqua e cielo, di uno stato quasi di fusione, di sospensione. Sono immagini che si posizionano appena prima della coscienza, della percezione definita, ricordano ciò che vediamo con gli occhi socchiusi»: punto evocativo di un’esplorazione esperienziale con la quale Ballo Charmet ha messo in discussione, sin dalla sua genesi, le convenzioni dello stile e della teoria attraverso un’insolita scelta prospettica, figurale e di luce. Riscoprendo, al contempo, la fanciullesca attrazione per uno stato dell’essere che fluttua nella sua incertezza: «una situazione in cui le cose sembrano sul punto di sorgere o di scomparire forse» (si può dire che lo stesso accada nei Quattrocento colpi: il vicolo cieco dinanzi al quale si arresta la fuga di Antoine, infatti, segna la continuità del sodalizio visionario tra Truffaut e il suo doppelgänger filmico, l’attore Jean-Pierre Léaud).
Tale consapevole atto di «decostruzione fotografica» provoca l’estraniamento del suo sguardo che scopre la meraviglia estatica dell’essere presente all’interno di un mondo visto per la prima volta «così com’è, nei suoi aspetti normali, immerso in una luce diffusa, neutra, quel “niente di speciale” che diventa significativo perché esiste, “è lì così”», verso il quale si pone in uno stato di ascolto. Al pari di Antoine-Truffaut, anche Marina Ballo Charmet s’immerge nel non visto fino ad allora, «camminando di fianco» a un quotidiano reso banale dalla consuetudine che ne nega la validità, lasciando cadere, man mano, gli stilemi dogmatici di un clamore sensazionalistico, teatrale o espressionista.
Una scelta radicale a favore del negato e del rimosso, tangibile nella sua concreta astrattezza, denota anche Bretagne (la prima serie sequenziale iniziata nel 1995), caratterizzata da un’insolita lacerazione discorsiva (analoga alla frammentazione della continuità spazio-temporale dei Quattrocento colpi). Qui l’autrice si abbandona a un’erranza preconscia che le consente nuove possibilità conoscitive: ritmate, al contempo, dal procedere contrappuntistico del suo corpo che, anziché mutare secondo una scansione biologica, retrocede fino a innestarsi nell’involucro figurativo di un bambino di due-tre anni, grazie al quale riesce a restituire importanza agli elementi urbani marginalizzati (Con la coda dell’occhio, 1993-1994); oppure sperimenta il primo contatto tattile e visivo con gli altri (Primo campo, 2000-2002: lavoro in cui «al posto del ritratto c’è l’immagine mentale»; è il marito, lo psicologo e psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, a suggerirlo) all’interno di un ambiente che può essere familiare, oppure estraneo (Agente apri, 2007, video a colori realizzato nel carcere milanese di San Vittore con la collaborazione di Walter Niedermayr, incentrato sui bambini «detenuti» insieme alle loro madri all’interno della struttura). Una scelta avvalorata anche da Stefano Chiodi (il cui testo critico, Visione periferica, è contenuto in appendice al libro): «“Posare lo sguardo” si dice, deporlo, potrei dire, è un gesto di rispetto, non di rimpianto, implica una decisione: abbandonare il punto di vista sopraelevato. […] Scendere, invece. Ciò che si raccoglie abbassandosi è la prossimità tattile con la superficie, con la terra, ciò che si produce è il disfarsi dell’orizzonte prospettico e il ribaltamento bidimensionale sul piano, la saturazione dell’attenzione e del campo visivo con gli accidenti minuti, stupidi, delle superfici».
I singoli capitoli di Con la coda dell’occhio si intrecciano l’un altro come echi di una memoria nei quali Ballo Charmet racconta il duplice passaggio che caratterizza il suo percorso – fotografico, psicologico e biografico – in divenire: dall’oralità alla scrittura, dal Sé all’altro, dal passato al presente, dall’inconscio fotografico a quello personale, dal guardare al percepire, dal concetto di inquadratura a quella di campo («inteso come contenitore che tiene conto della relazione empatica con l’oggetto e al tempo stesso lo offre nella sua neutralità»), in cui la centralità della veduta collassa nel suo opposto periferico, riportato al centro di un’attenzione non trionfalistica, tantomeno accattivante, ma partecipe.
Come Truffaut posiziona l’obiettivo della macchina da presa all’altezza di Antoine, così lei apre e chiude il suo libro incentrandolo sulla tematica dell’infanzia – individuale e non – narrando l’esperienza di un workshop fotografico realizzato con gli alunni di una classe elementare di Cassano d’Adda (il primo a notarlo è Jean-François Chevrier, che intrattiene con l’artista una conversazione riportata in chiusura), perché «si deve guardare tutta la vita con gli occhi dei bambini e vedere tutte le cose nella loro verità […] l’artista incorpora, assimila per gradi il mondo esterno fino a che l’oggetto che sta disegnando sia divenuto come una parte di se stesso, fino ad averlo in sé per poterlo proiettare sulla tela come una sua propria creazione» (Henri Matisse).
Marina Ballo Charmet – Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia a cura di Stefano Chiodi, con una conversazione dell’autrice con Jean-François Chevrier Quodlibet, 2017, 184 pp., € 20