Il pittoresco al tempo dei nonluoghi
Articolo di Giorgio Mascitelli su Alfa+più
In un’intervista concessa all’edizione milanese di Repubblica il 2 ottobre scorso, nella quale descrive i meriti e le qualità della città di Milano che la renderebbero degna dell’assegnazione dell’agenzia del farmaco europea, il direttore della Pinacoteca di Brera, il canadese naturalizzato britannico James Bradburne, dichiara che l’unico difetto della città è quello che non sempre e non in tutti i luoghi si parla inglese a differenza di Amsterdam, dove lui ha lavorato per dieci anni senza avere mai il bisogno di imparare una sola parola di olandese. Si tratta di una dichiarazione interessante perché riflette la nascita di una mentalità nuova; diciamo che fino a trent’anni fa affermare in pubblico di aver vissuto per dieci anni in una città straniera senza averne imparato almeno approssimativamente la lingua non sarebbe stato motivo di vanto per nessuno e tanto meno per un operatore culturale, mi ricordo anzi che Craxi in visita a Mogadiscio negli anni ottanta disse proprio ai membri della locale comunità italiana, che, visto che abitavano lì, un po’ di somalo bisognava proprio impararlo. Quella di Bradburne è una dichiarazione interessante anche per il luogo in cui è stata fatta: queste interviste a personaggi autorevoli sui meriti delle città nelle rispettive pagine locali dei giornali occupano un po’ la funzione sociale e simbolica che nel medioevo apparteneva al genere del poemetto municipalistico ( di solito composto in latino), di cui proprio il De magnalibus urbis Mediolani di Bonvesin de la Riva è un esempio illustre, e dunque riflettono con fedeltà le idee dominanti a proposito degli standard di qualità delle città e non certo solo le opinioni personali del direttore della prestigiosa istituzione braidense.
L’affermarsi di questa nuova dottrina linguistica, in base alla quale è la città e non l’ospite straniero a doversi adattare al cambio di lingua (purché naturalmente l’ospite sia unto dagli opportuni crismi del successo globalizzante, per gli altri valgono forme di accoglienza più tradizionali), è connesso con quella dimensione dei nonluoghi a suo tempo descritta da Marc Augè. Difatti l’inglese evocato qui è quello degli aeroporti e dei centri commerciali, la lingua franca delle transazioni commerciali, i cui tratti invasivi o imperialistici, secondo una terminologia irrimediabilmente attempata anche se più realistica, non sono percettibili dalla sensibilità contemporanea. Così i nonluoghi generano la loro nonlingua nell’ambito di quel processo che si potrebbe chiamare l’abolizione dell’altrove, nel quale per dirla con lo stesso Augé “il colore globale cancella il colore locale”. Ma naturalmente questo processo che tende, seguendo sempre la spiegazione di Augè, a costruire un omogeneo mondo-città, nel quale peraltro la città vera e propria sparisce, genera le proprie rimanenze. Infatti esistono sempre località, edifici, situazioni e persone a vario titolo irriformabili, irriducibili e inutilizzabili.
Questi elementi refrattari sono classificanti dalla mentalità dominante dentro uno schema sfera globale/ rimanenze, che non è immediatamente assimilabile al vecchio schema centro/ periferia in ragione della sua dimensione diacronica. La differenza tra ciò che è centrale e ciò che è periferico è invece sempre sincronica, data la natura spaziale della metafora. In breve è una rimanenza ciò che non è degno del presente, per esempio una città in cui ci sono luoghi e persone che non parlano la lingua degli aeroporti, e pertanto appartiene al passato, anche quando in realtà tutto sembra indicare che anche queste rimanenze siano un prodotto del presente. Così il presente o meglio l’attualità diventa segno esclusivo dell’appartenenza alla sfera del successo e delle èlite in maniera molto più radicale che nella moda, dove l’ultimo grido non cancella mai il valore segnico del casual o del vintage o dell’abbigliamento classico ( questo perché il sistema simbolico della moda si è costituito prima del capitalismo globalizzato).
La cultura contemporanea, una cultura in cui, giova ricordarlo, la percezione della propria storicità è stata bandita, di fronte a queste rimanenze sceglie in primo luogo la via dell’interdetto, del non rappresentarle perché la loro alterità è ritenuta irrilevante, non significativa e fuori tempo. La strategia dell’interdetto non è però sempre praticabile, visto che i nonluoghi e i loro frequentatori non possono esistere dappertutto, al pari del denaro, che circola a livello globale ma solo lungo certe vie e certi snodi; così fatalmente capita d’imbattersi in persone e luoghi di altro genere, spesso desolati e inutilizzabili, e di doverne parlare. A questo punto l’unico modo praticabile per rappresentare queste rimanenze è il pittoresco.
Il pittoresco è per così dire la rappresentazione bidimensionale dell’alterità ossia la sua evocazione e immediato ingabbiamento entro categorie rassicuranti per il pubblico. Il carnevale di Roma, per citare un classico del pittoresco, ne Il conte di Montecristo rassicura il lettore grazie all’impressione di esistere in quanto perfetta scenografia esotica di vicende il cui senso e la cui conclusione dipende esclusivamente da Parigi. Analogamente ne Le correzioni di Franzen la Lituania postsovietica è solo il teatro oleograficamente grottesco di una tappa del cammino prettamente statunitense del protagonista, anche se è probabile che Dumas, in ragione dell’epoca in cui viveva, abbia avuto maggiore consapevolezza di muoversi in questo modo entro la dimensione del pittoresco.
Il pittoresco non è solo una categoria estetica, ma innanzi tutto ideologica. Diventa il modo di rappresentare ciò che non è rappresentabile o che non ha diritto a parlare dentro lo schema sfera globale/ rimanenze. Così tramite il pittoresco possono essere rappresentate tutte le istanze che non rientrano nella logica del capitale globale e che non si esprimono nella lingua aeroportuale. Non è un caso che il pittoresco sia il modo in cui nell’Ottocento l’Europa guarda alle culture delle proprie colonie. Oggi però il pittoresco si globalizza, diventa cioè un elemento universale dell’ordine del discorso e non riguarda più solo le alterità geografiche ed etniche, ma ogni forma di diversità storica, politica e sociale. Insomma sempre di più la rappresentazione del mondo assomiglia ai depliant di certe località turistiche che mescolano nelle loro immagini resort ultramoderni ad angolini incantevoli e ciò non è privo di una sua involontaria e tragica ironia ora che le fiamme che lambiscono il mondo si fanno visibili a occhio nudo.