Hanan Ashrawi fa sentire la sua voce: “in Palestina oggi la speranza è un bene introvabile, la Palestina ritrovi il suo sogno e il suo progetto politico”
“In Palestina oggi la speranza è un bene introvabile” “La Palestina ritrovi il sogno e il progetto politico” Anche in questi giorni difficili e incerti, la voce di Hanan Ashrawi spiega al mondo la realtà del suo popolo con chiarezza d’analisi, determinazione e grande amore. E si rivolge anche all’Italia.
Riportiamo il testo dell’intervista a cura di Umberto De Giovannangeli del 13 dicembre 2017. La prima Intifada passò alla storia come la ‘rivolta delle pietre”, ma il suo carattere fondamentale, unico, fu che quella fu una ‘Intifada popolare’, guidata da uomini e donne cresciuti nei Territori occupati, formatisi dentro quella rivolta di popolo. Che aveva non solo un sogno da realizzare – lo Stato di Palestina – ma un progetto, una leadership riconosciuta e legittimata dal popolo palestinese prim’ancora che da Israele o dalla comunità internazionale.
Trent’anni dopo, quel sogno rimane, è ancora mobilitante, ma perché la rabbia si trasformi in una nuova ‘Intifada popolare’ c’è bisogno non solo di un progetto e di una leadership in grado di sostenerlo, ma anche di una cosa che oggi è un bene introvabile in Palestina: la speranza”.
A parlare, in questa intervista esclusiva concessa all’HuffPost è una delle figure più rappresentative e conosciute della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, memoria storica, oltre che critica, perché fu la prima portavoce della delegazione palestinese ai colloqui di Washington. Rappresentò una novità che conquistò l’attenzione internazionale: perché donna, perché cristiana, perché autonoma rispetto a “quelli di Tunisi”, i dirigenti dell’Olp in esilio con Yasser Arafat.
Oggi, Hanan Ashrawi è responsabile del Dipartimento cultura e informazione dell’Olp. “Trent’anni lasciano il segno, soprattutto quando sono marchiati da una occupazione che si è fatta sempre più asfissiante, soprattutto per le generazioni cresciute all’ombra del muro dell’apartheid in Cisgiordania e sotto un embargo che ha fatto di Gaza una prigione a cielo aperto isolata dal mondo”.
Ashrawi conferma che nessun dirigente palestinese incontrerà il vice presidente degli Usa Mike Pence durante la sua imminente missione in Israele ed Egitto. “Gli Stati Uniti – spiega Ashrawi – hanno reso qualsiasi negoziato di pace tra Israeliani e Palestinesi irrilevante e superfluo”, dopo la decisione di riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. “Con questa decisione – aggiunge – l’amministrazione Trump ha distrutto ogni chance di pace tra Israeliani e Palestinesi, schierandosi apertamente con gli occupanti israeliani”.
Dopo la decisione di Trump, si sono moltiplicati gli scontri ma è difficile riconoscere in questa protesta i caratteri di una “Terza Intifada”… “La storia non si ripete. Ciò che si reitera è l’occupazione israeliana, che nel corso degli anni si è fatta sempre più sistematica, asfissiante. Trent’anni fa esplose una rivolta popolare contro l’occupazione, oggi dobbiamo fare i conti con qualcosa di più strutturato di un’occupazione: dobbiamo lottare contro un regime di apartheid instaurato nei Territori, contro la pulizia etnica portata avanti a Gerusalemme Est nei riguardi di centinaia di migliaia di palestinesi. Trent’anni fa quella rivolta portò al centro dell’attenzione internazionale la causa palestinese, oggi, sbagliando, le priorità in Medio Oriente sembrano essere altre. Resta la rabbia, acuita dallo strappo su Gerusalemme, e la difficoltà a trasformare quella rabbia, diffusa, radicata, in un progetto politico e di lotta”. I giovani palestinesi sembrano non riconoscersi in nessuna fazione politica né in un leader carismatico. “Questo problema esiste e investe responsabilità nostre che non vanno celate. Hanno pesato e molto le divisioni tra le varie forze presenti nel campo palestinese, in particolare quelle tra Fatah e Hamas, divisioni che hanno indebolito la causa palestinese a livello internazionale, e alimentato il distacco tra i giovani e coloro che avrebbero dovuto guidarli. E in negativo ha pesato anche un mancato ricambio di classe dirigente…”.
Le prime e ultime elezioni risalgono a undici anni fa… “Un tempo troppo lungo. Sia chiaro: non sarebbe facile per nessuno costruire un sistema democratico, organizzare elezioni, sotto occupazione e quando devi lottare contro un regime di apartheid. Ma questo non spiega tutto. Che i giovani non si riconoscano nei partiti tradizionali non mi pare essere solo un problema palestinesi, voi europei ne sapete qualcosa… Nella prima Intifada, c’è sempre stata la determinazione a contrastare l’occupazione israeliana e al tempo stesso a costruire lo Stato che non c’è, lo Stato di Palestina, rafforzando la nostra identità nazionale, trasmettendo alle nuove generazioni il senso di una storia e di una cultura che facevano di noi una Nazione e non solo un popolo. Oggi dobbiamo recuperare quello spirito per fare di una rivolta una nuova Intifada”.
Non è solo un problema di strumenti di lotta… re il modo di sopravvivere al meglio. Quello palestinese è un popolo giovane, mediamente colto, ha le qualità per emergere. Ma sanno che per sent“So cosa vuole intendere e già in passato abbiamo avuto modo di discutere di questo. Questi trent’anni hanno rafforzato in me la convinzione che esiste una ‘terza via’ tra rassegnazione e deriva militarista. È la via della disobbedienza civile, della resistenza popolare non violenta. So bene che è una via difficile da praticare, ma non ne conosco altra migliore”. C’è chi sostiene che, in fondo, una Terza Intifada non sia nell’interesse né di Abu Mazen né di Hamas. “La prima Intifada spiazzò lo stesso Arafat ed anche Hamas. I Palestinesi non sono comandabili a bacchetta, hanno sfidato i carri armati israeliani perché la rabbia e il dolore accumulati in decenni avevano incrociato un progetto politico, si erano riconosciuti in una leadership interna e in quello che veniva riconosciuto come un simbolo di quella causa: Yasser Arafat. Oggi non esistono più simboli, il malessere sociale è cresciuto, a Gaza 1,5 milioni di palestinesi, in maggioranza giovani, vivono sotto la soglia di povertà e molto dipende dall’embargo imposto dieci anni fa da Israele e che rappresenta una odiosa punizione collettiva che va contro il diritto umanitario internazionale e la stessa Convenzione di Ginevra. Attenzione, però, a tirare conclusioni affrettate misurando la reazione palestinese di questi giorni solo in termini numerici. Perché ciò che abbiamo imparato sulla nostra pelle in questi cinquant’anni di occupazione è che i movimenti di resistenza hanno momenti di esplosione e altri di ripiegamento, ma l’importante è far vivere la speranza che esista un futuro. Mi lasci aggiungere che se è sbagliato tratteggiare i giovani palestinesi come eroi da fumetti, pronti a sfidare sempre e comunque, uno degli eserciti più agguerriti e armati al mondo, è altrettanto sbagliato pensarli e raccontarli come persone prive di ideali e di passioni, il cui principale problema è quello di trovairsi liberi non basta navigare in internet o sognare di realizzarsi al di fuori della Palestina. Non sono carne da macello, né una massa di disperati mossi da un insaziabile desiderio di vendetta. Voglionovivere e non trasformarsi in strumenti di morte. Ma vivere da donne e uomini liberi. Ed è su questa volontà che noi dobbiamo puntare. Nei modi e nei tempi necessari”.
In Israele è in arrivo il vice presidente Usa, Mike Pence, un uomo molto vicino agli ambienti evangelici americani che vengono indicati come i più accaniti sostenitori della scelta di Gerusalemme capitale. Qual è il significato politico della vostra scelta di non incontrarlo?
“Con la decisione assunta su Gerusalemme, l’amministrazione Trump da ‘arbitro’ si è trasformata in giocatore, schierandosi completamente dalla parte israeliana. In questo modo, il presidente Trump ha tolto ogni significato ad un negoziato tra Israele e i Palestinesi. Di cosa dovremmo discutere? Di qualche milione di risarcimento? Non saremo solo noi a non dare il benvenuto al signor Pince, ma la decisione di non incontrarlo è anche delle autorità religiose cristiane sia di Palestina che di Egitto. E da cristiana per me è un fatto di grande significato. Perché la Gerusalemme per cui mi batto non è solo una città condivisa, capitale di due Stati, ma è una Gerusalemme che tutti i credenti, ebrei, cristiani, musulmani, sentano come loro ‘capitale’. Ecco, il signor Pence dovrebbe prestare più ascolto a quanto affermato da Papa Francesco su Gerusalemme che assecondare le spinte estremistiche degli evangelici americani”. A Gerusalemme sarà svolta la prima tappa del Giro d’Italia 2018. Cosa si sente di chiedere oggi all’Italia? “Di ripensare a questa decisione che non può essere ricondotta ad una dimensione sportiva, tanto meno oggi. Finirebbe per infiammare ulteriormente gli animi. Al di là delle motivazioni addotte, era e resta una scelta sbagliata. L’Italia può lanciare un segnale di speranza e di attenzione ai Palestinesi: riconosca lo Stato di Palestina. Con Gerusalemme Est come capitale”.