Stereotipi e pregiudizi nei confronti della persona anziana sono sovente espressione di avarizia del cuore.
Davvero la vecchiaia è lo sguardo degli altri che ti incolla al tuo destino senza futuro, come afferma con disincantata ironia Amery ? Ed è altrettanto vero che la persona che invecchia diventa consapevole di ciò che non può più fare o non può più fare come prima? La percezione del processo di invecchiamento si presenta nella sua valenza più amara, in quel sottile dispiacere che intinge la presa d’atto di un cambiamento impastato nella riflessione del non più mentre ci si industria alla conservazione dell’ancora. La consapevolezza dell’essere diventati già dei vecchi ci punge in quell’attimo, in maniera intensa e difficilmente dimenticabile: accade di cedere allo smarrimento ed alla malinconia volgendo lo sguardo con rimpianto alla nostra giovinezza di appena ieri.
Nella società occidentale, centrata sulla giovinezza e dominata da un costume culturale che riconosce imperio alla produttività economica, l’auspicio a non invecchiare, anzi, ad apparire quanto più possibile (e per quanto più a lungo possibile) più giovani di quello che si è, assume davvero la valenza di imperativo categorico.
Vere, ancora, le parole di O. Wilde che per bocca di un’ indistruttibile Dorian Gray esclama : nel mondo solo la giovinezza è ciò che conta ?
Dovrebbe il tempo della vecchiezza , invece, come sottolinea C.Magris nella prefazione all’opera di Amery , diventare un tempo liberato dall’obbligo di attestare a noi stessi e ad altri un nostro valore, nostre capacità e vitalità.
Assunto il processo di invecchiamento a condizione psicofisica non brutalmente antitetica alla giovinezza, proprio perché consolidata dalla prevenzione e suggellata da stili di vita salutari, è ancora possibile cogliere del quotidiano la qualità più affrontabile? Sono conquistati ulteriori anni di benessere, sempre più facilmente si lima l’inquietudine di una probabile non autosufficienza, usualmente evocata dalla stessa condizione anziana.
Il vivere le vecchiaie dei nostri cari, il dover sperimentare la tristezza della loro perdita , il sostenere mentalmente la pesante e deludente rappresentazione della temporalità dell’esistenza possono diventare copioni già di per sé in grado di dare anima ad un fantasma inquieto, che ci costringe a pensare alla finitezza dell’esistenza come ad un qualcosa in grado di ridurre e costringere il nostro divenire in tempi brevi.
Per S.de Beauvoir maggiori sono le ombre e sempre più scomode e turbanti le voci del tempo che va : è un crescere negli anni amaro, a insindacabile giudizio della scrittrice francese, il soluto di una riprovazione senza via d’uscita indissolubilmente connesso con un’inevitabile esclusione sociale. Diventa l’ospizio l’ultima spiaggia, l’istituzione disumana, il luogo ove aspettare la morte, dunque il moritorio.
Già in Pragmatica della comunicazione umana P.Watzlawick assimilava l’anzianità ad una fase particolare del tempo di vita, sostanzialmente tempo in cui all’anziano era diabolicamente concessa una libertà assoluta nei suoi atti.
In parallelo, però, assumeva risalto l’ inevitabile incoerenza di una società nella quale l’esistere dell’anziano era poco ( o nulla ) riconosciuto ed apprezzato.
Affrontare l’invecchiamento della popolazione significa dunque dare voce ad un fenomeno naturalmente complesso sia perché include elaborazioni personali sia perché subisce l’influenza di un copione frutto dell’ageism sociale.
Stereotipi e pregiudizi nei confronti della persona anziana non solo esprimono accettazione di luoghi comuni, di conoscenze non verificate e di giudizi pre-confezionati, ma traducono anche e soprattutto tratti di un’economia della mente sovente espressione di avarizia del cuore.
L’esplorazione dell’universo della vecchiaia esige quindi una sempre più profonda riflessione in merito al senso dell’esistere: ogni fase di passaggio nella nostra esistenza è soggettivamente sostenuta, consapevolmente e non, da una certa ambivalenza. La crisi legata alla personale (sconcertante e veritiera) rappresentazione del proprio essere diventati dei vecchi si esprime, inesorabilmente, in flussi incoerenti di emozioni malinconiche , nutrite dalla nostalgia per ciò che più non sarà mentre si è alla ricerca di ciò che può, invece, ancora bastare.
E’ Gibran a rendere centrale questa inquietudine rispetto al più impegnativo tema della morte.
Voi vorreste conoscere il segreto/della morte. Ma come lo scoprirete/ se non cercando nel cuore della vita?/Il gufo i cui occhi notturni/ sono ciechi al giorno/non può svelare il mistero della luce./Se davvero volete vedere lo spirito/ della Morte, spalancate il cuore/al corpo della vita.
Vista da una prospettiva medica, psicologica, sociologica , la vecchiaia assume la consistenza di un processo inarrestabile , nel quale confluiscono variabili legate alla biologia dell’individuo ed ai tratti del suo essere psicologico, con conseguenti interazioni e scambi finalizzati alla co-costruzione di legami fra un soggetto sociale e l’ambiente che ancora ne permette l’inclusione.
Come afferma Duccio Demetrio si rende necessario allargare spazi per momenti capaci di dare continuità a quanto di formativo gli individui hanno sperimentato nella prima e seconda età adulta. Contemporaneamente risulta importante inserire elementi provocatori di discontinuità ,in grado di nutrire esistenze e far vivere (e rivivere) esperienze significative di crescita intellettuale, culturale ed autoriflessiva.
Invecchiare nella desolazione di un presente mal tollerato porterebbe, invece, a scontare una pena, duplice: il giogo di un passato eccessivo e l’insopprimibile inconsistenza di un futuro incerto, potenzialmente poco vivificante, nel quale sarà più facile leggersi emarginati. Non è però più necessario dare buona prova di sé, è permesso osare, mollare gli ormeggi, anche navigare a vista. Per dirla con Levinson si tratta di lavoro altro nella prospettiva di una vita più adatta a noi stessi.
E nel guardare in faccia l’avanzare del tempo rasserena il pensiero di Seneca: confortami nelle difficoltà, dammi la serenità contro l’inevitabile, allunga la brevità del mio tempo, insegnandomi che il bene della vita non consiste nella sua durata ma nell’uso che se ne fa. Può avvenire, anzi molto spesso avviene, che proprio chi è vissuto a lungo sia vissuto poco.
Riferimenti bibliografici: Amery J.,(1988)Sull’invecchiare. Rivolta e rassegnazione, Torino, Bollati Boringhieri – Beauvoir de S.,(2002) La terza età, Milano, Einaudi – Gibran K.,(2011) Parole sussurrate, Roma, Newton Compton – Levinson D. et coll.,(1978) Seasons of a Man’s life, New York,Random House – Mazzara B.M.(1997) Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Il Mulino – Seneca L.A.,(2014) De brevitate vitae, Milano, Mondadori – Watzlawick P. e coll.,(1967)Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio
* Rita Farneti Psicologa e Psicoterapeuta – Ravenna