Le donne della Collezione Prinzhorn
Un viaggio attraverso le opere d’arte realizzate dalle recluse degli ospedali psichiatrici del primo Novecento, alla scoperta di disegni, pitture e ricami sopravvissuti ad un lungo silenzio, senza invecchiare.Di {{donne nei manicomi}} e nelle altre istituzioni psichiatriche europee dei primi anni del XX secolo ce n’erano molte, moltissime. Venivano spesso rinchiuse per atteggiamenti non conformi allo stereotipo femminile difeso dalla società patriarcale e condannate alla reclusione per tempi molto lunghi.
Le indagini condotte negli ultimi vent’anni sui meccanismi che hanno favorito la patologizzazione delle donne mostrano come la psichiatria di inizio secolo sia stata tra i protagonisti di questa modalità discriminatoria: senza neppure scomodare il tema del desiderio femminile o del amore lesbico, sufficiente confrontarsi con alcune affermazioni contenute nei dossier psichiatrici di quegli anni per rendersi conto della grandezza del problema, come nel {{caso di Charlotte C.}}.
_ Siamo nel 1917, la paziente ha già vissuto tre anni di internato quando, a seguito ad una domanda di matrimonio, la sua situazione viene riesaminata. Riporta il dossier: “La paziente ha potuto lasciare l’istituzione in quanto presentava di nuovo i segni esterni di una signora” e il suo psichiatra conclude affermando che il progetto di Charlotte è di buon auspicio per un’evoluzione sana” .
La follia ha suscitato un notevole interesse agli occhi di numerosi artisti e storici dell’arte tanto da portare, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, alla concettualizzazione di un’arte psichiatrica separata da quella delle avanguardie. E anche qui la “rappresentanza di genere ha subito un duro colpo. Tra il 1918 e il 1921 lo psichiatra tedesco e appassionato di arte Hans Prinzhorn si dichiara affascinato dalla plasticità delle opere di alcuni ricoverati nella clinica universitaria di Heidelberg, dove lavorava in qualità di assistente e chiese ai suoi colleghi di fornirgli esempi di opere che mettessero in risalto la percezione individuale del mondo dei loro pazienti. Fu così che nel 1922 giunse a costituire una vasta collezione, unica per il suo tempo e che divenne negli anni un riferimento importante per l’arte psichiatrica.
“Tanto le donne si manifestavano veementemente nell’stituzione psichiatrica, tanto la Collezione Prinzhorn le presenta in modo discreto – afferma Bettina Brand-Claussen, assistente scientifica alla Collezione di Heidelberg. – E quando ve ne sono, si trovano classificate tra gli {Scarabocchi non figurativi} e i {Disegni ludici a tendenza ordinata} raggiungendo raramente quello che viene dallo psichiatra definito l'{Affascinante stravaganza} .
{{La Follia al femminile}} ({Waanzin is Vrouwelijk, La folie au féminin, Madness is female}, edizioni Museum Dr. Guislain, 2006,¨ il titolo del catalogo tratto dall’omonima mostra, ospitata di recente dal museo del Dr. Guislain di Gand (Belgio). Un’iniziativa che ha contribuito a colmare un vuoto, presentando le opere delle artiste della Collezione Prinzhorn sotto un’altra luce.
La mostra e il libro sono il risultato degli studi compiuti negli ultimi venti anni da un gruppo di studiose e storiche dell’arte per cercare di {{correggere la marginalizzazione imposta alle donne nella professione artistica in ambito psichiatrico}}. L’assenza delle opere delle donne nella Collezione prosegue Bettina Brand-Claussen deriva da una {{definizione maschile dell’arte e del mestiere di artista}}, ma è anche responsabilità delle stesse istituzioni psichiatriche che hanno suggellato il silenzio, privato di mezzi e di possibilità espressive le pazienti quando addirittura non ne hanno stravolto il senso per adeguarlo a canoni più sani e convenzionali.
{{Dalle donne ci si attendeva che si limitassero all’artigianato}}. {{Ricamo, tessitura e decorazione}} erano le vie d’espressione permesse alle brave ragazze e un mezzo espressivo per le ricoverate che venivano indirizzate a questo genere di attività per recuperare la “normalità”. Dagli archivi esaminati durante le ricerche emerge che “alcune ricoverate possedevano un gran talento, erano creative e capaci di elaborare strategie estetiche e metodi di lavoro originali in assenza di qualunque indicazione – scrive Gisela Steinlechner in uno dei saggi introduttivi che arricchiscono il catalogo è senza poi però essere riconosciute .
Prendendo spunto dalla propria condizione di segregazione, le artiste hanno tradotto su carta e stoffa il rapporto con il proprio corpo e la propria visione del mondo. {{I soggetti maggiormente}} rappresentati sono i {{luoghi abitati in un passato più o meno lontano}}, forse un tentativo di ricreare uno spazio che nulla abbia a che vedere con il mondo spersonalizzato e confinato del manicomio.
Le case trasparenti di {{Marta Hoge}}, internata nel 1909 a seguito di reiterati tentativi di suicidio, mostrano contemporaneamente l’esterno e l’interno disabitato e privo di oggetti. Gli edifici in vetro di {{Louise Bourgeois}} dal chiaro titolo {Glass House/No secrets} seguono lo stesso ideale, mentre {{Eugénie P.}}, internata nell’ospedale psichiatrico svizzero di Préfargier, scelse di rappresentare unicamente gli interni realizzando delle perfette case di bambola, completamente arredate dove non manca nulla e dove ogni oggetto possiede un’annotazione che ne descrive l’uso o conserva il ricordo di uno spazio divenuto inaccessibile.
I {{ritratti e gli autoritratti}} (sebbene più rari) costituiscono un altro mezzo importante per affermare la propria identità in un luogo come il manicomio. Ne sono un esempio le mani e i piedi di {{Getrud Schwyzer}}, che scelse di ritrarre solo le parti da lei giudicate importanti, e le figure di donne tutte intere, elegantemente vestite e colorate di {{Elisabeth Faulhaber}}, i cui contorni sono mobili e instabili grazie alla tecnica dello sfumato.
{{Ferri da calza, ago e uncinetto}} erano gli strumenti più facilmente accessibili alle recluse, segno sottile della tendenza alla repressione, di un mezzo per rieducare le donne alle ‘virtù femminili’ dimenticate con la malattia. Molte di loro, tuttavia, li adoperarono in modo trasgressivo, come {{Agnes Emma Richter}}, sarta di professione, internata nel 1898 presso il manicomio di Dresda e messa in seguito sotto custodia a Hubertburg: utilizzò il tessuto grigio delle lenzuola manicomiali per cucirsi un vestito che poi ricamò con testi interamente autobiografici, indossando così la narrazione del proprio malessere.
Anche la {{scrittura}} ha un ruolo importante: disordinata o perfettamente simmetrica, fatta di singole parole o fiumi di testo, costituisce il mezzo per esprimere il proprio disagio in un contesto in cui la propria verità non era compresa. {{Emma Bachmayr}}, finita molto giovane prima in un convento, da cui uscì dopo essere a suo dire ‘divenuta pazza per le troppe preghiere’ venne poi internata a Regensburg per manie di persecuzione. Nei suoi testi, intrecci di parole e frasi scritte di volata attraversano il foglio in ogni direzione, accavallandosi e ripetendosi all’infinito, per rivendicare il diritto di denunciare chi vuole impedirle l’accesso al proprio capitale e ‘contro i torti causati ai bambini adottati, orfani e ai malati mentali’ .
Laddove, poi, la società non ha più spazio per le donne di una diversa disposizione – eccetto che nei luoghi ristretti degli istituti – molte hanno tentato la fuga verso altre sfere. {{Spiriti protettori, angeli guardiani}} e simili emblemi assicurano la protezione contro la miseria della reclusione e ricorrono nel repertorio espressivo delle artiste. Come nell’opera di {{Else Blankenhorn}}, la sola donna rientrata nella parte più importante della Collezione Prinzhorn. Volti angelici di donne calme e sorridenti popolano i suoi immaginari biglietti di banca dai tagli smisuratamente elevati, dieci milioni di miliardi, cento milioni di miliardi. Immedesimatasi nella pelle dell’imperatore Guglielmo coniò questa cartamoneta immaginaria ‘per destinarla alle coppie seppellite vive’. Un mezzo interessante ed esteticamente molto convincente per concedersi uno spazio immaginario di autonomia in un luogo di totale reclusione e dipendenza.
Lascia un commento