Maschi e contro il patriarcato?
Nel mondo di oggi dominano le semplificazioni e forse si corre più che in passato il rischio di pensare che sia sufficiente usare parole adeguate, assumere posizioni e atteggiamenti “politicamente corretti”, per non essere dalla parte di chi opprime. Non è affatto così, in modo particolare per quel che riguarda gli uomini e l’eredità del patriarcato. Se non possiamo sentire la sofferenza della violenza e del disprezzo sulla nostra pelle, di quale cambiamento possiamo parlare nell’oppressione maschile? E allora? Dobbiamo rassegnarci e accettare con l’opportunismo del caso, oppure con amara e comoda serenità, il destino che ci ha fatto nascere dalla parte di un privilegio per il quale proviamo vergogna? Naturalmente no, sebbene non ci siano linee da seguire né percorsi liberatori segnati. Possiamo cominciare, tuttavia, dalla consapevolezza di dover attraversare una crisi molto profonda
Possono esistere maschi anti-patriarcali? Due anni fa, nella casa di Mujeres Creando, a La Paz, ho formulato questa domanda a Maria Galindo. Lo sghignazzo fragoroso deve aver risuonato fino a El Alto, arrampicato sulle pendici della hoyada (una depressione del terreno circostante, ndt), per poi vagabondare nell’altopiano. È rimasta a ridere per un bel po’, Maria. Quando ha recuperato la serenità, ha detto una cosa che m’è sembrata di senso comune, provenendo dall’anima e dal corpo di una donna femminista lesbica in un mondo di maschi: solo se si attraversa una crisi profonda.
Adesso, che si avvicina la giornata di lotta dell’8 marzo e si moltiplicano le assemblee di donne per preparare lo sciopero e le mobilitazioni, sento la necessità di tornare su alcuni interrogativi. Possono esistere uomini non patriarcali? C’è poi una domanda ancora più complessa: noi maschi possiamo essere femministi? Credo siano due orientamenti diversi. La prima domanda possiamo discuterla. La seconda dovremmo scartarla, almeno nell’accezione in cui viene posta.
Noi maschi possiamo simpatizzare con il femminismo, ma assumere il fatto che potremmo essere tali è un altro paio di maniche. Possono essere comunisti un padrone o un banchiere? Sì, potrebbero, sempre che si disfino dei loro beni materiali e si guadagnino la vita lavorando. È chiaro che stiamo parlando di cose materiali, che vanno e vengono, dunque. Il caso del patriarcato è molto differente perché le relazioni di oppressione di quel tipo non si risolvono in una maniera tanto “semplice”, diciamo, come disfarsi di fabbriche, case e campi.
Vorrei precisare le domande. Cosa ne facciamo del privilegio maschile? Come potrei disfarmi dei privilegi dell’essere maschio di fronte alle donne? Si tratta di privilegi simili a quelli che abbiamo noi maschi bianchi (o donne bianche) nelle comunità indigene o nei quilombos/palenques neri. Quell’asimmetria non scompare mai, salvo che uno si integri vivendo un tempo molto lungo nella comunità, come uno dei tanti, in ogni aspetto della vita. E comunque, anche in quel caso, semmai uno dovesse un giorno uscire dalla comunità, potrebbe reintegrarsi senza troppi problemi nel mondo da cui proviene.
Essendo maschi bianchi eterosessuali, poi, i privilegi si moltiplicano. E allora?
Ritorno alla frase rumorosa di Maria Galindo. Senza crisi non ci sono cambiamenti. Almeno alcuni di quei cambiamenti che possano avvicinarci a una sensibilità capace di connetterci con il dolore delle donne, con la permanente e brutale (o sottile) umiliazione di ogni giorno, di ogni minuto. Se non possiamo sentire la sofferenza delle violentate, delle disprezzate, delle molestate sulla nostra pelle, fosse anche appena un po’, di quale cambiamento possiamo parlare? Perché nel mondo di oggi, sembrerebbe che sia sufficiente usare le parole adeguate, i termini politicamente corretti, per non essere più parte del mondo degli oppressori.
Per questo è necessaria la crisi. Perché de-costruire il ruolo del maschio oppressore non è una questione teorico-accademica; perché non basta andare alle manifestazioni dell’8 marzo; perché non è sufficiente assumersi una parte dei compiti domestici.
A questo punto, voglio precisare che non ho la minima idea di come potremmo uscire dal ruolo di oppressori. Non c’è una linea e nemmeno c’è un cammino da seguire ma ci sono da creare modi di vivere e di sentire. Senza imbrogliarci. Creare è sempre qualcosa di incerto, perché non possiamo mai anticipare i risultati. Per questo la crisi. Perché si tratta di uscire da un ruolo, cosa già di per sé difficile, senza sapere dove collocarsi, in quale ruolo mettersi, come muoversi. Nei cortei delle donne siamo abituati a posizionarci in coda, oppure di fianco sul marciapiede. È un primo movimento. E poi?
Sulla base della mia esperienza nel mondo indigeno e nero, posso solo dire che si tratta di camminare in punta di piedi, senza far rumore, sempre ai lati, mai al centro. Lavorare sull’ego in ogni secondo, in ogni movimento, con tutti i pori e tutti i desideri.
Ogni volta che ho domandato a qualche compagna “cosa dobbiamo fare”, è comparso un gesto di incertezza. Neppure loro sanno che posto possiamo occupare noi maschi che non vogliamo essere patriarcali, né nella vita quotidiana né negli spazi collettivi comuni. Dovrebbe essere un farsi più piccoli per uscire dal ruolo ereditato, qualcosa come camminare con gli occhi bendati, sapendo che ci saranno scivoloni, cadute, ferite… e che, probabilmente, prima o poi apparirà una mano che ci sostiene. Che altro possiamo chiedere, noi che opprimiamo, alla vita?
Questo articolo è uscito in spagnolo su Desinformemonos. Traduzione per Comune: Marco Calabria.