Il potere del #MeToo americano. E noi Italiane
Articolo di Maria Nadotti pubblicato dalla rivista on line Gli Asini
Esiste una sola donna al mondo, Italia compresa a dispetto della nostra pudica o altezzosa ipocrisia, che non potrebbe compilare su due piedi il proprio personale “me too”? Ci starebbero dentro le violenze fisiche, sessuali e psicologiche in luogo pubblico (da cui la paura di andare per strada da sole in certe zone o in certe ore della notte, ma anche di aprire bocca per dire la nostra a viso aperto). Ci starebbero dentro le discriminazioni e i mancati riconoscimenti sul posto di lavoro, il vedersi passare sempre davanti qualcuno che magari ne sa meno di te, ma in quanto maschio (e talora femmina) dà più garanzie (di lealtà? di obbedienza?). Ci starebbero dentro quei tanti piccoli mercati di cui a volte ci siamo perfino giovate per battere in volata qualche altra donna (già, la cartina al tornasole del “me too” porta alla luce anche tutte le scorie che si sono andate depositando dentro e su di noi nel corso del tempo, rendendoci servili nei confronti dei maschi e rivali delle altre donne). Ci starebbero dentro i maltrattamenti domestici, gli incesti, le asimmetrie economiche che mettono in stato di dipendenza, se non di schiavitù, un numero esorbitante di mogli, compagne, madri, sorelle, figlie. Ci starebbero dentro quelle immagini cieche riverberate su di noi dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, ma anche da insospettabili testi scolastici per la prima infanzia e da tanta letteratura rosa, nera, gialla, rosso sangue.
Lascio ad altre penne la voglia di disquisire sui distinguo tra flirt e molestia, argomento davvero secondario, vista la posta in gioco. Ognuno e ognuna di noi sa che, perché ci sia flirt, gioco di seduzione, corteggiamento, anche solo invito a pensarsi come “oggetto” di desiderio, ci devono essere due soggetti che si riconoscono tali e tali sono. E, a dirlo, è una che ha sempre rimpianto i favolosi anni sessanta italioti, quando poteva capitare che dall’alto di un ponteggio un edile ti gridasse: “o son ciechi o son di legno”. Potevi prenderla per un’offesa o un complimento, ma la questione non è certo quella sollevata dal movimento #MeToo.
Oggi, ci ricordano alcuni scrupolosi analisti, magari cavalcando quel meraviglioso oggetto mediatico che è la presunta contrapposizione tra donne europee e nordamericane, non dobbiamo sentirci solo vittime (posizione, ammettiamolo, piuttosto deprimente). Di emancipazione ne abbiamo avuta parecchia. Se ci lasciamo maltrattare, violentare, soffiare un posto di lavoro da un ragazzotto qualsiasi, fottere da un amico di famiglia o da uno zio, una qualche responsabilità dovremo pur averla. Se ci mettiamo trent’anni a capire che un amante (o un datore di lavoro) più o meno occasionale, scelto o subìto, ci ha fatto veramente del male, non sarà meglio che ci facciamo un bell’esame di coscienza, riconoscendoci idiote oppure variamente complici, conniventi, calcolatrici, opportuniste (all’epoca dei fatti) e delatrici, vendicatrici, castratrici (con il senno di poi)?
Mentre i solerti analisti di cui sopra continuano a lambiccarsi un po’ pregiudizialmente la mente, un numero sempre più nutrito di donne sta dicendo ad alta voce quali siano le ragioni della propria presunta e spesso reale acquiescenza, della propria eventuale e perdente complicità.
Perché è difficile farsi ascoltare e, ma solo in seconda battuta, credere.
Perché è meno doloroso e umiliante stare zitte, provare a dimenticare.
Perché si rischia di ritrovarsi isolate e, per di più, dalla parte del torto.
Perché è più comodo e vantaggioso tacere.
Finché è più comodo e vantaggioso tacere o accontentarsi di quei bisbigli all’orecchio che accompagnano da sempre la vita delle donne, quel dire in segreto a una o più amiche che ti ascoltano con partecipazione e ti permettono, proprio grazie alla condivisione, di non ribellarti, di tirare avanti.
Poi Donald Trump diventa presidente degli Usa e si comincia a ballare. Che lui sia un poco di buono, un mezzo matto, un irresponsabile, lo si capisce a occhio e orecchio nudi. Però è stato democraticamente eletto. C’è un’America che ha creduto in lui e che lo sostiene. È un’America pericolosa per tutti, non solo per gli americani, non solo per i neri e i migranti in arrivo da quei “buchi di culo” (ipse dixit) che sono l’Africa o il Centroamerica, non solo per i poveri e per le donne. Ma lui è rocciosamente ancorato al suo posto, forte della maggioranza del suo partito al Congresso.
Ricorderanno, lettrici e lettori, che non molti anni fa anche qui da noi ci trovammo alle prese con un politico-imprenditore-showman, eletto dal popolo italiano, che governava l’Italia come se fosse una sua azienda. Lo si sarebbe potuto incastrare su molte delle sue malefatte, sulla sua spavalderia da imbonitore di paese, sulla vuotezza delle sue promesse e dei suoi “contratti con i cittadini”, e invece si preferì farlo scivolare sulla buccia di banana di un suo geriatrico vizietto. E alcune donne italiane cantarono vittoria e furono, a modo loro, ricompensate con una pioggia di posti e posticini nel circo Barnum della politica e dell’amministrazione. Gli equilibri di potere ne uscirono intatti, perché a fare da bersaglio a quella sollevazione c’era un singolo individuo che, a guardare bene, forse non era peggio di tanti altri. E perché, magari senza volere, le donne avevano reso un servizio al sistema invece di porgli un ultimatum o quantomeno metterlo a soqquadro. E infatti, a distanza di un pugno di anni e di qualche pena scontata nei servizi sociali nostrani, la persona in questione oggi è ammessa in grande spolvero alla kermesse elettorale.
Negli Stati Uniti, a partire dal giorno stesso in cui Trump si è installato alla Casa Bianca, lo sgomento elettorato democratico si è mobilitato in tutti i modi possibili per rimuoverlo dalla sua posizione. Nel mirino: evasione fiscale, Putin-connection, giochini di guerra con quell’angioletto di Kim Jong-un (pura polvere negli occhi), condotta sessuale.
Perché dunque non provare a vedere nel caso Weinstein una formidabile prova generale di uno spettacolo che potremmo intitolare “Abbattimento e umiliazione dell’uomo più potente del reame”? A muoversi sono state le attrici di Hollywood, su questo non c’è alcun dubbio, seguite dai sempre più ingolositi, ma anche politicamente vigili, media mainstream americani. Ma dietro di loro c’è, compatta, un’alleanza di ferro tra donne.
Il 17 ottobre 2017 la cantante e attrice Alyssa Milano riprende senza saperlo uno slogan già esistente,“Me Too”, creato nel 2006 da Tarana Burke, attivista femminista e nera impegnata da sempre in un’opera simile a quella svolta in Italia dalle operatrici delle Case di accoglienza delle donne maltrattate.
È una scintilla che dà fuoco alle praterie.
In quell’# si riconoscono in un lampo donne di ogni classe sociale, età, religione, colore, orientamento sessuale. La loro (sarebbe falso dire ‘la nostra’) è una vera e propria sommossa, un riot: stanno gridando adesso basta e non vanno per il sottile, se la testa di qualcuno rotola tanto peggio per lui, si è mai visto un assalto ai forni in cui si chieda al fornaio di regolamentare l’accesso al banco e legiferare sul prezzo del pane?
E Weinstein cade, e dietro di lui, in un inarrestabile effetto domino, una serie di star (tra loro Kevin Spacey, per altro gay e dunque disinteressato alle donne, che verrà sottoposto a una forma ferocissima di pena: l’invisibilità e la cancellazione retroattiva. Un contrappasso dantesco. Incubo peggiore, per un attore, credo non ci sia.)
Da noi, di fronte a tanta “imperturbata violenza”, è stato evocato il fantasma del puritanesimo, arrivando a parlare di una moderna “caccia alle streghe” ai danni degli uomini, dunque tout court del desiderio. Il potere maschile, che così spesso gli uomini confondono con il proprio diritto, viene nominato poco o distrattamente, come se il punto non fosse quello. O forse nominarlo fa paura, quasi si temesse un Malleus Malleficarum che, invece di abbattersi sulle streghe ribelli di storica memoria, venisse impugnato dalle donne contemporanee per detronizzare e evirare i maschi. Un po’ alla Lorena Bobbitt, ricordate?
Nel 1989 lei, ecuadoriana e diciannovenne, sposa lo statunitense John Bobbitt. Quattro anni dopo, nel giugno del 1993, taglia il pene al marito addormentato, poi sale in auto e se ne disfa gettandolo dal finestrino. La polizia lo recupererà e i medici provvederanno a riattaccarlo al corpo dell’uomo. Lorena viene giudicata non colpevole: quattro anni di abusi domestici e stupri coniugali hanno prodotto in lei un disturbo post-traumatico da stress, facendola temporaneamente impazzire. La sua pena consisterà in un periodo di quarantacinque giorni in un ospedale psichiatrico. Lei è stata “curata”. E lui?
Da dove viene, in questo momento, alle donne americane e di tante altre zone del mondo (le adesioni a #MeToo sono milioni, India e Cina incluse) il potere di fare quello che stanno facendo e fino a che punto intendono esercitarlo? Si tratta di un fenomeno caotico, spontaneo e disorganizzato, destinato a esaurirsi non appena i media rivolgeranno ad altro la loro attenzione? Oppure quel prendere atto insieme di non essere le sole e da sole annuncia un cambiamento epocale, che nessun legislatore riuscirà a rinchiudere in una carta dei delitti e delle pene appena un po’ aggiornata? Tipo “Barbablù, Barbablù, dagli altri uomini e da me stessa, salvami tu”.
Su questi punti sarebbe utile che, anche da noi, donne e uomini cominciassero a ragionare.
Le prime per capire se in Italia non sia davvero ipotizzabile un “me too” singolare-collettivo capace di non inciampare nelle reti insidiose di una (auto)conservazione preoccupata anzitutto di tenere in piedi famiglie, chiese e partiti, ma anche di non assumere la vitrea specularità della vendetta che riproduce gli orrori contro cui dovrebbe a nome di tutti, uomini compresi, combattere. I secondi per prendere atto che, come sostiene la cauta scrittrice statunitense Caitlin Flanagan sul mensile “The Atlantic” del 14 gennaio scorso, in molte parti del mondo “le donne sono “in collera”, “temporaneamente potenti” e potenzialmente “pericolose””. Che è dunque il caso non di svilirle, aggredirle, metterle le une contro le altre, ma di provare a ipotizzare insieme a loro nuove alleanze, percorsi meno autistici del desiderio, una visione meno fissa, binaria e problematica delle figure del maschile e del femminile.
Nessun vaso di Pandora è stato scoperchiato, ma quando l’io sa farsi noi, il Moloch – per sua e nostra fortuna – non è più al sicuro. (23 gennaio 2018)
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 49 de “Gli asini”