Esiste una questione femminile in letteratura, per cui le autrici rimangono magnifiche comprimarie del panorama letterario? Lo abbiamo chiesto a LOREDANA LIPPERINI, giornalista e scrittrice femminista
L’intervista è di Safia Biondani
— Nel suo saggio del 2007 Ancora dalla parte delle bambine, un capitolo, quello dedicato a lettura e letteratura, è titolato “Contro Hermione Granger”. La coprotagonista della saga Harry Potter è una lettrice intelligente, rispettosa delle regole e capace di risolvere i problemi, cacciando gli amichetti Harry e Ron fuori dai guai. Questo la rende, lei scrive, “una perfetta comprimaria. Ma i protagonisti sono altri”. Le autrici nell’ambiente culturale – penso al mondo editoriale, a festival, premi, classifiche e contributi sugli inserti letterari – e nella percezione comune, sono delle Hermione Granger, eccellenti personaggi secondari?
Sì, io temo sia così. C’è una schizofrenia al riguardo che coinvolge, secondo me, in primis le lettrici. I dati lo confermano: le donne leggono di più e dunque non può che persistere il mito della lettrice, quella che nell’iconografia classica è ritratta languidamente adagiata sul divano, abbandonata alla lettura. Credo che sia soprattutto un mito maschile, che in molti libri di autori maschi si riflette sui personaggi. Però quella stessa lettrice è contemporaneamente disprezzata. Se ci si aggira sui social, infatti, non è raro imbattersi nel tweet dell’autore che disprezza le “professoresse che leggono” o le signore che affollano le presentazioni letterarie, come se questo tipo di pubblico, che pure gli è necessario, fosse la causa principale di quella che è stata ritenuta la semplificazione dell’editoria italiana, un abbassamento di livello della famigerata letterarietà. In molti casi quella semplificazione è vera, ma per altri e ovvi motivi. È vera perché stiamo passando dalla figura del publisher, l’editore, al publishing, che consiste nel cercare di confezionare prodotti che di anno in anno si fanno più vendibili, più digeribili, facendo coincidere semplificazione con vendibilità. Buffo che questa semplificazione, esplicitamente o implicitamente, si faccia risalire alla lettrice, considerata emotiva, sentimentale, non in grado di apprezzare e godere di trame e strutture letterarie complesse. In spregio alla lettrice, chi la contesta si incorona portatore di alta letterarietà. Anche a sproposito.
E le scrittrici, dall’altra parte?
Temo vengano viste ancora come graziose comprimarie. Due esempi su cui torneremo: i dati disponibili raccontano che, in tutte le pagine letterarie, le donne sono meno presenti sia come autrici di recensioni, che come autrici recensite. E, ancora, pensiamo all’organizzazione dei festival, durante la pianificazione dei panel si ragiona secondo la logica del “ci vuole una donna”, nel rispetto di una presunta quota rosa, e non considerando, come sarebbe auspicabile, l’autorevolezza letteraria della scrittrice.
Persiste anche il pregiudizio per cui le donne in letteratura parlino solamente alla metà femminile dell’umanità (e gli scrittori invece parlino all’umanità intera)?
Sì, anche se non viene ammesso. Ogni volta che si chiede a un autore quali siano le sue autrici di riferimento, vengono citati i soliti pochi nomi, sempre quelli, i pochi che vengono riconosciuti come autenticamente letterari. L’altra obiezione è “non guardo al sesso di chi scrive”, ma temo non sia così, numeri alla mano. Nel 2012 avevo raccolto in un articolo sul mio blog dei dati a questo riguardo. Il Corriere della Sera da gennaio a novembre 2011 pubblicò 256 recensioni in totale: 54 su 256 riguardano autrici, 36 recensioni su 256 sono state scritte da donne. Il gruppo editoriale L’Espresso, da gennaio a novembre 2011, ha pubblicato 450 recensioni, cui 100 riguardano autrici, 139 sono scritte da donne e in 59 casi sono donne che recensiscono donne. Postilla: Non è detto che le critiche letterarie o le giurate di premi letterari siano più benevole nei confronti delle scrittici. Poiché comunque è introiettato, consapevolmente o meno, il pregiudizio per cui la donna non è letteraria, non le compete l’arditezza del linguaggio, racconta se stessa, le proprie viscere – come se ci fossero autori che non parlano di viscere, anche Thomas Bernhard parla di viscere! – e, per via della sua incapacità di approfondire, non parla all’umanità.
La promozione e la commercializzazione di un libro assumono connotati diversi in base al genere di chi scrive?
Basta pensare alla raccolta di racconti Brividi immorali, recentemente pubblicata da Laura Morante, che non ho ancora letto ma certamente leggerò. Al solo annuncio della pubblicazione, c’è stata una simpatica fioritura sui social di scrittori pregiudizialmente critici. Nel caso delle donne è molto più facile che venga preteso una sorta di curriculum letterario. Devi essere “nata” scrittrice, ma quando e come si nasce scrittrici? Non puoi aver fatto, se sei donna, un altro percorso, come avviene per moltissimi uomini, passati alla narrativa dopo aver esplorato altre forme artistiche, come il teatro, o aver sfornato pizze? Nessuno, in quei casi, ha chiesto il patentino di letterarietà.
Quando si tratta di un’autrice, quanto influisce il genere letterario che scrive, sia nel testo stesso che nella sua percezione?
Io scrivo una narrativa dove entra direttamente l’elemento fantastico, e finisco dritta dritta nell’apoteosi del rifiuto. La grande Ursula Le Guin, che ha iniziato a scrivere letteratura fantastica proprio per liberarsi dai vincoli accademici, sosteneva che fosse un errore mortale aver identificato la qualità con il realismo, cosa che comporta un’automatica identificazione tra genere dominante e genere migliore. Una donna che scrive genere è doppiamente emarginata da questo punto di vista. Anche dalle colleghe. Le scrittrici – non necessariamente di genere – consapevoli del problema si contano sulle dita di una mano: Murgia, Postorino, Marchetta, Janeczek, Oliva, Parrella, Santangelo e poche altre. Non sono tante quelle che dicono: “C’è un problema, c’è un pregiudizio”. Si risponde con l’accusa di volere le quote rosa anche in letteratura, mentre quel che serve è un lavoro culturale sul pregiudizio. È un lavoro molto lungo: bisogna partire dalle antologie scolastiche.
Ci faccia un esempio.
L’unico Nobel per la letteratura assegnato a un’italiana è andato a Grazia Deleddda, che non è certo fra i nomi più citati.
Esistono autori che si pongono diversamente verso i personaggi femminili?
Certamente esistono. Penso al lavoro di Stephen King e alla sua capacità di costruire donne straordinarie e di trattare con molta frequenza temi legati alle questioni di genere, inserendo nelle sue storie riferimenti ai centri antiviolenza americani, all’odio verso “le femministe”, alle donne abusate e che a quella violenza reagiscono. Stephen King si è impegnato nella creazione di personaggi femminili che non fossero di sfondo, insomma. Restando nel “pop”, George R.R.Martin, autore delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco è molto attento alle figure femminili, e che lavorano in direzione di assoluta libertà rispetto al modello femminile imposto. È anche vero che nell’ambito della letteratura fantastica vige una grande libertà creativa, che si sta liberando dallo stereotipo della lettrice innamorata alla Madame Bovary. Penso a Chiara Palazzolo, alle sue donne e alla sperimentazione linguistica e letteraria che ha portato nel genere horror.
Sono nati, specialmente negli ultimi anni, premi e festival letterari riservati alle donne. Si tratta di una autoghettizzazione o di una valorizzazione di professionalità, talenti, esperienze altrimenti trascurate?
Il lavoro che ha fatto Inquiete è potentissimo, poiché ha posto la questione politicamente, ha riscosso un successo meritato ed enorme e ha obiettivamente portato alla ribalta un problema che in altre iniziative magari serpeggiava. Il problema è questo: in alcuni festival si ragiona secondo la linea del “politicamente corretto”, quindi sul filone del “Devono esserci abbastanza donne per non far arrabbiare nessuno”, ad altri ancora, invece, non importa nulla neanche del “politicamente corretto” quindi le donne competenti compaiono al massimo come intervistatrici, e in misura minore come autrici e pensatrici.
Nel suo blog ha frequentemente manifestato la necessità di parlare della questione della visibilità delle donne in letteratura, auspicando che il tema venga affrontato spesso, non solo a parole ma anche coi fatti, quando necessario, come successo ad Angoulême due anni fa. Riusciamo a immaginare delle strategie capaci di colmare la disparità di attenzione che colpisce autrici e autori?
A parte il lavoro sulle antologie scolastiche cui accennavo prima, certamente continuare a parlare del problema è una strategia utile, anche affinché la visione dei compagni di via non sia d’occasione, ma vissuta con convinzione fino in fondo, senza che persista la titubanza dovuta al dubbio che, inserendo la questione di genere in letteratura, si corrompa il valore letterario delle discussioni. Sul mio blog pubblicai un articolo titolato Mi vedi?. La risposta è ancora: non troppo. Questo è quel che intuisco dal mio doppio, quindi privilegiato, punto di vista: quello di chi scrive e quello di chi si occupa di chi scrive. E noto ancora che un romanzo maschile, anche mediocre, riceve più attenzioni di un romanzo a firma femminile. Provo a fare il gioco del rovesciamento.
Ce lo spieghi meglio.
Prendiamo La Strada di McCarthy, immagina se quel libro l’avesse scritto una donna e parlasse di una madre e una figlia. Come sarebbe stato accolto? Si sarebbe detto che le donne parlano di famiglia. È questo il vero problema. Facciamo un altro esempio. Pensiamo a Elena Ferrante e alla diffidenza italiana critica nei suoi confronti, dalla quale è accusata di “parlare delle solite cose”. O ancora a Maestoso è l’abbandono di Sara Gamberini. Se l’avesse scritto un uomo sarebbe stato acclamato come il romanzo dell’anno, ma al momento non è così. Per questo sarebbe bello, pensando alle strategie da mettere in atto, che gli scrittori, e non solo le scrittici, partecipassero attivamente alla discussione.