L’ abolizionismo femminista: legittimo erede dell’ abolizionismo anti-schiavista e del movimento-operaio
Maddalena Celano, Paola Zaretti e Laura Cima hanno pubblicato quanto vi propongo su questa pagine. Un modo anche per ricordare il lavoro di Rina Macrelli una delle femministe che ha permesso alla Casa Internazionale delle Donne di essere un punto di riferimento non solo nazionale.
Il primo autore regolamentarista, il francese Parent-Duchatelet, scrisse un libro (De la prostitution dans la ville de Paris considéréé sous le rapport de l’ hygiène publique, de la morale et de l’ administration) in cui definisce la donna al servizio del maschio. La prostituta è un servizio per il maschio in ogni aggregato d’ uomini. “Le prostitute, aveva scritto testualmente, sono altrettato inevitabili, in un agglomerato di uomini, delle fogne, degli scarichi e dei depositi d’ immondizia. La condotta dell’ autoritá dev’ essere la stessa riguardo questi come riguardo quelle” (ibidem, p. 367). Il testo fonda la prostituzione come sistema legale e regolamentato. Nasce una categoria di subalterne consacrate e inchiodate giuridicamente alla loro stessa subalternitá: le prostitute regolamentate.
L’ abolizionismo femminista: legittimo erede dell’ abolizionismo anti-schiavista e del movimento-operaio
Nell’ Italia nella seconda metà del secondo Ottocento, si affermò una campagna tanto ardua quanto audace e civile come quella contro la prostituzione di Stato. Eroine di primo piano in questa battaglia furono Anna Kuliscioff, Jessie White Mario e Anna Mozzoni. Questo donne furono sostenute da uomini altrettanto illuminati e influenti come Nathan, Agostino Bertani e Raffaele Morelli. Dopo il 1870 mentre il papa criticava la prostituzione di Stato che toglieva ai papi il monopolio di risolvere il problema morale: cacciarono le prostitute oltre i confini. Garibaldi si reca al Congresso per la Pace di Ginevra, nel ’67, con l’ Hugo e il Quinet, e l’ intesa fra i popoli era tutta da costruirsi. A un secolo di distanza, durante la Comune parigina, nel 1871, un gruppo di madri che tendevano le bottiglie del latte per i loro bambini rivendicando il diritto a nutrirli, vennero presentate dagli anticomunardi come furie agitanti bottiglie di petrolio per incendiare Parigi: nacque la leggenda delle “pétroleuses”. In Italia, essendo da poco nato il Partito Socialista Italiano, Anna Mozzoni premeva per un dialogo tra tutti i socialisti, atei o cristiani che fossero, collettivisti o individualisti, della cattedra o della fabbrica, respingendo qualunque prospettiva di violenza e confluendo con quel movimento operaio organizzato, che il pubblicista Bignami e il lontano Engels, il meridionale Martignetti (che avrebbe pagato duramente, sul piano personale, l’audacia di tradurre l’ engelsiano “Origine della famiglia”) e l’ operaio Kerbs, cacciato in Italia dalle leggi bismarckiane, consideravano a ragione il protagonista reale di una battaglia da svolgersi nel quadro della legalità e della crescita collettiva. In quest’ universo in formazione, di cui ciascuno di quei nomi stava ad indicare la molteplicità delle vie d’ accesso, un’ altra donna avrebbe dato la forma di un’ organizzazione moderna, cioè di un partito politico: Anna Kuliscioff. Il partito socialista nacque a Genova nel 1892, con tutti i suoi pregi e con i suoi inevitabili limiti, fu opera sua, come riconobbe a tutte lettere, pur nel linguaggio maschilista dell’ epoca, Antonio Labriola, dicendo che il socialismo italiano aveva un uomo solo, il quale era una donna, e per di più straniera. Tuttavia è probabile che nel tentativo, più volte operato, di rimuovere Anna Kuliscioff da posto che si è conquistato, percepibile in tanti testi di storia, ci sia qualcosa che abbia a che vedere, nell’ inconscio degli autori, col suo essere donna, e per di più straniera. Questo istintivo processo di rimozione è stato rafforzato dal fatto che il nome di Anna Kuliscioff è stato, nella storia politica, ciò che è stato il nome di Maria Curie nella storia della cultura: ha disturbato la divisione sessista dei ruoli intellettuali. Ciò che interessa rilevare è che questo tentativo di abrogazione è stato preceduto dall’alto, compiuto verso un’ altra donna, e per di più straniera anche lei, appunto Jassie White Mario. Provate, per esempio, a cercare il suo nome nel pur interessate testo dedicato anni fa da Alberto Caracciolo all’inchiesta Jacini: lo si trova una volta sola, in una lettera citata da Bertani, nient’ altro. Ora, l’una e l’ altra di queste due donne stanno ad indicare l’ aspetto internazionale dei grandi movimenti che hanno trasformato in positivo la storia del nostro paese, il Risorgimento democratico e il movimento operaio; esse sono state la testimonianza vivente del limite invalicabile che separa le lotte per l’ indipendenza dal chiuso nazionalismo. Anna Mozzoni siccome aveva già partecipato alla campagna per l’ emancipazione dei negri americani, comincia la sua lotta contro la prostituzione di Stato, seguendo l’ esempio di quelle altre femministe dei diversi paesi, da Jenny d’ Héricourt a Josephine Butler a Maria Goegg, che si stavano battendo negli stessi anni per impedire, o per abrogare, i “regolamenti di polizia”. Va tra l’altro notato che nella sua terra natale, in Inghilterra, questa campagna era affrontata negli stessi ambienti che avevano accolto ed aiutato, in età risorgimentale, i democratici italiani, mazziniani o no, cioè dagli Stansfelt, dai Bright, ecc. Vorrei ricordare che gli stessi nomi di donne impegnate nell’ abolizionismo, la Butler e la Martineau, la Griess Traut e la d’ Héricourt, si trovano insieme nei primi organismi d’ aggregazione femminista internazionale, e nelle prime Società per la Pace. Per tutte, lasciando stare quelle che si collegano alla nascita dell’europeismo democratico, e che costituiscono esse pure un capitolo di storia da scrivere, ricorderò quella “Società di donne per eguali diritti e per la pace” che riunì gran parte delle femministe americane e nel cui comitato esecutivo, reduce dalle sue polemiche contro Proudhon, tra quanti discutevano sulle città progettate come futura sede, Washington, Parigi, Londra, Firenze (allora capitale d’ Italia) o una città centrale della Germania; l’ azione di questa società evidenziava le sue origini storiche, tanto che fu sostenuta da Federico Douglass, il primo giornalista di pelle nera, direttore della “Stella del Nord”, che aveva per so motto orgoglioso: “L’ autentico diritto non conosce differenza di sesso”. Naturalmente si trattò di tentativi che, a differenza di quelli successivi, ebbero breve respiro. Comunque, va notato che, anche negli Stati Uniti, finita la guerra di secessione, e insieme alla campagna suffragista, il movimento abolizionista trovò spazio e vigore, e vi raggiunse il risultato di evitare la deprecata “regolamentazione”. Entrando nel merito di questo movimento, che ebbe in Inghilterra la sua capitale morale e per condurre il quale occorse certamene in Italia, ai Nathan, ai Bertani, come alle White Mario e alla Craufurd Saffi, le mogli inglesi che i due repubblicani, Alberto Mario e Aurelio Saffi, si erano portate in patria dall’ esilio, anche più coraggio di quanto fosse stato loro necessario in epoca risorgimentale. La prostituzione, come l’assoggettamento sociale della donna, di cui è un aspetto, non nasce con la rivoluzione industriale o con la rivoluzione francese. Questa fu la pretesa dei nostalgici del feudalesimo, proprio a causa del fatto che, con la rivoluzione industriale e con la rivoluzione francese, cominciava la lotta contro l’ assoggettamento sociale della donna, e, quindi anche contro le cause della prostituzione. Questa prima risposta consistente, a livello collettivo, poteva ora esprimersi perché l’ assoggettamento sociale della donna appariva ora evidente e riconoscibile, caduti gli orpelli della finzione cavalleresca e clericale. Una donna monacata a forza, o il diritto della prima notte, nel secolo XIX faceva scandalo; nel XVII no: il mondo preborghese è pieno di prostitute come di mendicanti, come nel caso di Isabella Morra rinchiusa nel suo castello e poi assassinata. Vale comunque la pena notare una differenza nella concezione della donna tra il feudatario e il capitalista, concezione che venne, talvolta, in modo e misure diverse, contestata dalla cultura più sensibile ed aperta delle varie epoche: sempre considerata oggetto, la donna, la gran massa delle donne per il feudatario era come la terra, corvéable à merci per diritto divino, in possesso perpetuo, alla quale ovviamente non si chiedeva permesso per coltivarla e usarla come si credeva; nell’ un caso e nell’ altro, il parallelismo con la condizione dell’ uomo delle classi assoggettate è percepibile. L’avversario comune a queste due complementari concezioni della “donna-oggetto” è la donna soggetto di scelte, quella, per fermarsi al rapporto sessuale, che ogni giorno sceglie il suo compagno, magari per riconfermarlo ogni giorno, in piena reciprocità di condizioni. La condizione necessaria, anche se non sufficiente, di questa realtà si andava profilando, già nel secolo XIX, come quella della donna che poteva almeno vendere la propria forza-lavoro invece della propria persona. La rivendicazione della parità salariale e della parità giuridica ebbe questo profondo significato morale, esattamente come l’ebbe la lotta contro la schiavitù dei negri americani. L’ alternativa preborghese che Proudhon presentava ancora possibile, “prostituta o massaia”, non era in realtà che la duplice faccia di un’ unica medaglia, perché’, mantenendo le donne in sottosalario, o negando loro il salario per restituirle alla vita domestica, si manteneva il sostrato economico dal quale scaturiva la prostituzione femminile: non a caso, ciò che colpiva, e continuava a colpire, l’ osservatore non prevenuto era il fatto che la maggior parte delle leggi sulle donne aveva carattere feudale. È qui che queste antiproudhoniane, Mozzoni compresa, restano, sia pure per un aspetto secondario, subalterne alla prospettiva dell’ alternativa proposta da Proudhon; ed è qui, infatti, che un secolo dopo si sarebbe innestata la reazione fascista. Vediamo di analizzare la questione: in linea generale, tutte queste femministe, abolizioniste, capirono l’essenziale, che la battaglia chiave era il pieno diritto delle donne al lavoro e alla parità salariale. Però, data la difficoltà, a quel tempo, di sostenere con coerenza queste rivendicazioni, di fronte ad avversari assai agguerriti e numerosi, esse non seppero resistere alla tentazione di alzare una trincea di retrovia contro la prostituzione: quella del matrimonio da “incoraggiare”. Così proposero che l’uomo coniugato dovesse, nelle assunzioni sul lavoro, essere preferito allo scapolo. In questo modo si dettero la zappa sui piedi, perché’ il privilegio del coniugato veniva proprio motivato dalla sua necessità di “mantenere” la consorte; e quindi, a maggior ragione, l’ uomo veniva preferito alle donne e ne giustificava il sottosalario, mantenendo anche per questa via le basi strutturali della prostituzione. In questo modo veniva ribadito come naturale il fatto che la donna vendesse la propria fisicità, in una forma o nell’ altra , come produttrice di piacere sessuale e figli[1]:
Sulla base di questa coerente logica feudataria, alle donne, cioè veniva negato il diritto di proprietà della propria persona, non solo il diritto al divorzio, ma anche quello di scegliere se e quando mettere al mondo dei figli. Tutto questo mondo di rinunce era implicito nl ritorno all’ideologia familista che la discriminazione tra coniugati e scapoli comportava. Queste femministe compirono lo stesso errore concettuale e con lo stesso candore che compì Anna Kuliscioff quando promosse senza cautela la legge sulle lavoratrici madri, nell’idea che un parziale “ritorno” delle operaie madri al lavoro domestico potesse diminuire lo sfruttamento della lavoratrice nelle fabbriche. È perfettamente naturale che la reazione antifemminista passasse, sempre più consapevole con tempo, attraverso questi varchi. Ed è appunto analizzandoli che cresce la contemporanea capacità’ femminista di chiuderli, chiudendo la strada alle soluzioni evasive e tornando al nocciolo del problema. Sia ben chiaro che anche in questo caso, come in quello di Anna Kuliscioff, non si è trattato di errori individuali, ma di esitazioni e contraddizioni collettive, che erano segni di un’ epoca, riflesso di difficoltà reali: lo stesso Stuart Mill, che pure sottolineava con tanto vigore l’ importanza degli uguali diritti tra i sessi, in famiglia e fuori, indulgeva poi, per le donne delle classi lavoratrici, all’ idea della sistemazione famigliare come alternativa al lavoro nelle fabbriche e alla prostituzione. È ricostruendo questo itinerario mentale che si capisce l’ opposizione, erronea ma non casuale, di una donna pur assai intelligente, come Angela Merlin all’ introduzione del divorzio in Italia. Ed è ragionando su questi temi che si capisce, d’ altra parte, come invece Carlo Marx, consapevole fino in fondo del significato filosofico di certe posizioni, abbia sempre rifiutato di legittimare teoricamente come fatto eterno la famiglia, di contrapporla alle diverse forme di assoggettamento sociale, che invece in essa si riflettevano , e la intersecavano. Rifiutarsi di legittimare teoricamente un’ istituzione non equivale a rifiutarla storicamente, cioè praticamente: direi, al contrario, che spesso una robusta famiglia ha consentito a molte donne, ed anche a qualche uomo, di sferrare con tranquillità l’ attacco culturale agli aspetti arcaici dell’ istituto famigliare. Questa infatti fu la condizione consapevole di Marx, e questa fu anche la condizione di molte femminile ed abolizioniste del secolo scorso, soprattutto delle “donne del Risorgimento” in Italia[2].
[1] R. Macrelli, L’ Indegna Schiavitú, Anna Maria Mozzoni e la lotta contro la prostituzione di Stato, Editori Riuniti, Roma, 1981, pp. XX-XXI
[2] Ivi, p. XXIII