LIVORNO – È morto nella notte del 24 agosto il coreografo, attore, ballerino, mimo e regista britannico Lindsay Kemp.
Aveva 80 anni. Il coreaografo ha avuto tra i suoi allievi tra i più grandi artisti dell’ultimo secolo: Kate Bush, Peter Gabriel, Mia Farrow e David Bowie. Proprio con il cantante inglese Kemp ebbe un soldalizio durato anni alla fine degli anni 60 che fu da ispirazione per i successivi lavori del musicista.
La cantautrice Camilla Fascina ha realizzato il video di “Time”, con la partecipazione straordinaria di Lindsay Kemp, maestro di Kate Bush, Peter Gabriel e, soprattutto, David Bowie, prima che l’artista ci lasciasse. Il brano, cover di Bowie riarrangiata per voce, pianoforte e violino, è inserito nell’ep di Camilla “Fascinated by Bowie”, mentre il video è girato da Mattia Ottaviani con la coreografia di Lucia Salgarollo. Dal giorno della morte di Bowie, il 10 gennaio, quel lavoro ha assunto un significato magico: contiene una coincidenza troppo forte per essere ignorata, una magica sintonia tra Lindsay e David. Lindsay, nel video, fissa infatti una candela che si consuma, pensando alla vita che si consuma per tutti noi, mentre Bowie contemporaneamente apre il suo ultimo album “Blackstar” con queste parole: “In the villa of Ormen stands a solitary candle in the centre of it all”.
Da anni aveva scelto di vivere a Livorno e dirigeva un corso di danza al teatro Goldoni. Ma perché questo immenso artista scelse Livorno come nuova casa? È lui stesso a spiegarlo a Luciano Donzella in un’intervista al Tirreno pubblicata nell’ottobre del 2012.
«Mi sono innamorato di Livorno tanti anni fa quando sono venuto con Flowers al Goldoni. Sono nato in una città col porto, il mare. Ma la differenza la fa la gente di Livorno. Qui mi sono sentito a casa, più che in ogni altra parte del mondo, ho trovato grande umanità, ho ricevuto un magnifico benvenuto, per le strade, nei bar, al mercato, soprattutto al mercato, che è qui accanto. Non mi importa della nobiltà, della celebrità, mi piacciono le persone normali, sincere, di cui ti puoi fidare. L’affetto della gente mi dà stimoli e ispirazione. Poi questa casa sorge dove un tempo c’era il Teatro Politeama, ed è come se ci fossero i fantasmi degli antichi teatranti, io li sento»
Il condominio anni settanta è lungo i Fossi Medicei. Sul citofono solo quattro lettere: Kemp. Qui vive, nel centro di Livorno, uno dei mostri sacri del teatro del Novecento. Lindsay Kemp viene ad aprire, e la favola comincia. Ad aiutarci a capire come e perché una star di prima grandezza dello show internazionale abbia fissato il suo buen retiro fra queste mura c’è Daniela Maccari, da 3 anni aiutocoreografa di Kemp e sua principale assistente, “Uno degli angeli che ho incontrato da queste parti” dice lui accarezzandola con un sorriso.
Dopo aver scritto la storia del teatro del Novecento, lei a 74 anni… «Chi le ha detto che ho 74 anni? Wikipedia? Non ci creda, sono bugiardi… magari ne ho 75, o molti meno…».
Ecco, Lindsay Kemp è così. Lo guardi sorridere, ammiccare, fingere esagerato stupore, incupirsi e rasserenarsi in un attimo come un cielo inglese, e avverti un senso di leggerezza, la sensazione che sì, la vita è bella e va presa come un gioco.
Voglio dire, lei a una certa età continua ad aver voglia di salire sul palcoscenico con l’energia di un ragazzino. E’ una grande storia d’amore, quella fra lei e la danza. «Sono nato danzando, come tutti i bambini. Io non l’ho mai dimenticato, la mia è una vita danzante, non c’è differenza fra il danzare e il vivere».
Come e perché si è interrotto il rapporto con il teatro Goldoni di Livorno?
«Questa è una storia per me molto triste. Ho insegnato qui con grande passione per 3 anni, abbiamo alzato insieme lo standard di preparazione degli studenti, abbiamo fatto tre spettacoli. Insegnare per me è importante. Mi hanno fatto sapere che la collaborazione si interrompeva. Mancavano i soldi. Ma, dico io, potevamo parlarne, con un po’ di fantasia un modo si sarebbe trovato. Si, è stata una grande tristezza, ma amo così tanto questa città che non ho potuto andarmene. Ora spero di rimettere insieme parte del gruppo e riprendere ad insegnare con altre realtà locali».
Certi politici italiani dicono che con la cultura non si mangia. Lei cosa ne pensa?
«Oscar Wilde diceva “Anche se hai pochi soldi non ti comprare un grosso pane, spendine metà per il pane e metà per i fiori”. L’arte è essenziale per lo spirito, per la salute. Ci sono eccezioni, ma generalmente i politici sono persone orribili».
Torniamo a lei: oggi si sente un Maestro?
«No, io sono uno studente, ho tanto da imparare. Ma sono molto felice di avere avuto il dono di aiutare gli altri a soddisfare i loro desideri».
Ma non pensa che un personaggio come lei dovrebbe avere più attenzione e più gratificazioni?
«Ovviamente l’attenzione è essenziale per un attore, e forse mi piacerebbe avere più opportunità. Non parlo di soldi, ma di spazi, o di persone con cui lavorare. O magari di una pubblicità adeguata che faccia conoscere un lavoro fatto».
C’è qualcuno, nei campi più vari, che lei considera un Maestro?
«In passato ho avuto la fortuna di avere grandi Maestri, ma ora dove sono? Mi guardo intorno e non li vedo. Fra gli ultimi mi vengono in mente Luca Ronconi, Giorgio Strehler, Pina Bausch».
Come era Lindsay da bambino?
«Non molto diverso da ora. Un piccolo combattente. Timido? E chi non lo è? Ma se vuoi diventare una star, te ne devi dimenticare».
E i rapporti con i suoi genitori?
«Quante ore abbiamo? Mio padre era in Marina, come un po’ tutti in famiglia. Morì all’inizio della guerra. Avevo una sorellina che – si vede anche dalle foto – era una piccola teatrante, ma se ne andò a 5 anni, e io sono nato come una sorta di sostituzione. Mia madre era molto sofisticata, teatrale, appassionata. Mi incoraggiava a ballare e cantare, durante i bombardamenti intrattenevo la gente nel rifugio. Per me il teatro divenne una specie di ossessione, ma mia madre aveva paura per il mio futuro, e mi mandò all’Accademia Navale. Furono anni orribili, brutali, ma sopravvissi danzando e intrattenendo i miei compagni, divenni popolare nella scuola, e ovviamente malvisto dai graduati. Venni via senza una lira, e quando mia madre capì che il teatro era la mia strada si mise a fare le pulizie, o la cameriera per aiutarmi. Poi è diventata la mia più grande fan, ha visto Flowers 120 volte».
C’è stato un momento di svolta, nel quale la sua vita ha preso una certa direzione?
«No, è stata una linea continua: avevo una stella in fondo, e l’ho seguita. Come diceva Martha Graham, “L’ho desiderato, l’ho fatto”. Non è stato facile, è stata una strada accidentata, ma sono contento».
Lei ha ha vissuto gli anni Sessanta nella Swinging London. Che ricordo ne ha?
«Ricordo la gioia, le risate, la libertà, l’impegno che tutti avevamo per la pace. Era un grande momento per l’arte, la creatività, la sperimentazione, anche se io non volevo fare underground. Se pensi a Bob Dylan, John Lennon, c’erano davvero grandi personaggi, un bel periodo. Eravamo tutti idealisti, qualcuno lo è ancora. Io per esempio. E ricordo che il sole splendeva sempre; lo so, non è vero, ma io lo ricordo così».
Come lavora materialmente alle sue storie, come si accende la sua creatività?
«Le idee a volte sono lì, arrivano dalla finestra, le porta il vento, te le trovi lì. Possono venire da un film, più spesso dalla musica, a volte da un libro, e quando arrivano è la parte migliore».
La sua è una vita da artista. Ha dovuto fare delle rinunce?
Le ballerine classiche fanno rinunce: parlano di figli, diete, vita di sacrificio. Io non ho fatto sacrifici, non ho rinunciato a divertirmi, a fumare, non ho abbandonato le cose che mi danno piacere. Lo so, rischio di passare per edonista. O forse lo sono».
Ha qualche rimpianto?
«Sarebbe affascinante dire “Non ho rimpianti”. Ne ho, ne ho. Un esempio? Avrei potuto dare più attenzione ai miei insegnanti, lavorare più duramente. Io per tutta la vita non ho fatto che giocare».