Se il capitale diventa una seconda natura – una riflessione su cosa significa -oggi- lavoro
Una volta che si riconosce che l’economia si è imposta in tutte le sfere dell’agire e del pensiero umano, che cosa significa parlare di forza lavoro come «facoltà che appartiene agli individui», espressione di libertà e autodeterminazione di uomini e donne, che lavorino o non lavorino? «La forza lavoro – scrive Roberto Ciccarelli nel suo Capitale Disumano(manifestolibri, 2018) – diventa una merce a seguito della sua vendita. Ma – prosegue – resta comunque una facoltà del suo possessore». E aggiunge che, in quanto tale, «è universale e comune». Difficile non vedere l’analogia con la definizione marxiana della «passione dell’uomo», intesa come il bisogno di una «totalità di manifestazione di vita umana» di ogni vivente.
VIENE immediata l’osservazione che, finché resta una potenza indipendente dalle offerte di mercato che risuona nel fondo di ogni vita come semplice diritto all’esistenza la forza lavoro così distinta dalla sua oggettivazione in merce, assomiglia allo stato di natura di Rousseau, e al concetto di inesistenza delle donne, da cui è partito il femminismo degli anni Settanta: in entrambi questi casi, si era evidentemente ritenuto necessario restituire all’individuo la consapevolezza che, dietro le imposizioni e i modelli, a cui ha dovuto assoggettarsi, non si era mai eclissata la possibilità di esercitare le diverse funzioni del corpo, della ragione, dell’immaginazione.
VERREBBE da dire che finalmente, anche nell’analisi del lavoro, si è aperta una breccia nell’ombra lunga dell’economicismo che ha segnato la vulgata marxista, resistendo all’urto della rivoluzione culturale e politica del movimento delle donne e, in tempi più recenti, alla progressiva femminilizzazione del lavoro. Forse non è un caso che lo scarto, rispetto a una critica dell’economia catturata dal suo stesso oggetto, avvenga in un momento in cui è saltata la divisione tra il lavoro produttivo e tutta la somma di vita che, riduttivamente, impropriamente, è stata così a lungo collocata sotto la voce «riproduzione», nel senso che Marx stesso gli ha dato, e cioè come riproduzione della forza lavoro in quanto merce. Assenti le donne e la materialità di esperienze corporee e intellettuali ritenute «naturali» del genere femminile.
LA CADUTA dei confini, che hanno tenuto separate e in guerra tra loro la «potenza dell’amore» e la «coercizione al lavoro» (Freud), non ha segnato solo la femminilizzazione della sfera pubblica – la vita in quanto tale messa a produrre valori economici, sociali, cognitivi, attività di cura malpagate o gratuite, l’economia che diventa oikonomia, economia domestica -, ma un passaggio più inquietante a quel perverso connubio di autoimprenditorialità e autosfruttamento che ha preso corpo, pur nella sua astrazione, nel figura del capitale umano». In corrispondenza con la crisi del lavoro da tempo si moltiplicano gli inviti a diventare imprenditori di noi stessi. Il nuovo imperativo è pensare la vita come se fossimo tutti manager.
L’IO DIVENTA, al medesimo tempo, datore di lavoro e lavoratore di se stesso, viene a ricoprire un doppio ruolo: quello di chi comanda e di chi obbedisce. La libera scelta diventa la manifestazione di una subordinazione.
Con questo ultimo cambiamento nei rapporti che ci sono sempre stati tra sfere tra loro divise e contrapposte, il divoramento avviene su un versante e sull’altro: il capitale ingurgita la forza lavoro separandola dal vivente, ma il vivente, a sua volta, incorpora il capitale e le sue leggi, si fa oggetto e attore della propria alienazione.
SE IL FEMMINISMO degli anni Settanta aveva messo a tema le problematiche del corpo e contrastato l’economicismo dominante nella sinistra extraparlamentare, con l’idea che si dovessero cercare o nessi tra sessualità e politica, sessualità e economia, oggi la naturalizzazione del sistema capitalistico, neoliberista, è avanzata a tal punto da assomigliare alla sorte toccata nel corso di secoli alla donna: l’interiorizzazione, sia pure forzata e inconsapevole, della rappresentazione maschile del mondo, e compresa, per usare le parole di Sibilla Aleramo, «solo per virtù di analisi».
QUANDO i rapporti di potere toccano la vita intima – intreccio, confusione, sovrapposizione-, entrano fatalmente nella vita psichica. È accaduto per le donne, legate a un dominatore che era anche figlio, marito, padre, fratello, amante, piegate per ragioni di sopravvivenza o per amore al sacrificio di sé, alla dedizione all’altro, costrette a considerare malattia, colpa, inadeguatezza propria gli effetti della colonizzazione del loro sesso. Oggi, pur con qualche differenza, può toccare a chi è spinto, fin dagli anni della scuola, a interiorizzare la dialettica servo-padrone, a reinventare la subordinazione, che non trova nella società, come fatto psicologico. Non molto diversa è la richiesta che è fatta alle donne – e che le donne stesse sono tentate di vedere come un riconoscimento e una occasione di far valere la loro «differenza»- di investire le loro «risorse», i loro «talenti» per rivitalizzare un’economia in crisi. Non vittime, ma soggetti che oggettivizzano il loro corpi, come corpi erotici corpi materni.
CONTRO un’emancipazione che vuole oggi uomini e donne attori del loro asservimento, e li ritiene responsabili quando falliscono, non resta che aprire la strada a quella ricerca di autonomia e libertà, su cui si erano incamminati il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo. La garanzia di poter contare su un tempo liberato dall’aziendalismo potrà venire da quello che oggi Non Una di Meno ha definito un «reddito di auto-determinazione». Per scostarsi da una illusoria onnipotenza figlia dello sfruttamento capitalistico, ci vorranno comunque modi nuovi e più incisivi dell’agire politico.
Pubblicato oggi sul blog di Lea Melandri e su Il manifesto