BOLOGNA – una sentenza che rovescia le carte in tavola facendo vincere l’assassino
Un vero tsunami si è abbattuto sulle donne con la sentenza di Bologna che dimezza da 30 a 16 gli anni di reclusione per l’uomo/maschio , colpevole nel 2016 di aver strozzato ed ucciso la compagna. Uno tsunami maggiormente devastante per le motivazioni addotte a sostegno di una sentenza che fa tornare indietro le conquiste delle donne per il riconoscimento della loro carica identitaria e dignità come donne e persone.
Una sentenza che tra il diritto e il rovescio, sceglie di rovesciare le carte in tavola: la donna violentata o uccisa diventa la colpevole e non la vittima e si usa una specie di falsa pietas per il killer ma non una parola e una vicinanza alla donna annientata.
Una “tempesta emotiva” avrebbe travolto il femminicida, “offuscato dalla gelosia e suffragato da sospetti di tradimento”. Queste parole non solo offendono profondamente le donne, ma suonano come una sorta di giustificazione del reato , ricacciando le donne in un tunnel di colpevolizzazioni ed in un “pena fine mai”, spostando l’attenzione sul maschio maltrattante e mai sulla donna, vilipesa, violentata, denigrata e uccisa.
Fra tutti i delitti il femminicidio racchiude una differenza sostanziale: l’uomo non uccide preso da un raptus, incapace di intendere o volere o perché, attento alle trasformazioni meteorologiche avverte una “improvvisa tempesta.. o cattivo tempo”; l’uomo toglie la vita ad una donna per cancellare la sua libertà di scelta, di vita, perché la considera sua proprietà non rispettandola, perché è un suo oggetto e non tollera che sia un soggetto pensante e libero.
Le statistiche parlano chiaro: una donna al giorno viene uccisa nel nostro paese ed in tutti i paesi del mondo a cominciare dagli Stati Uniti. Il femminicidio è una volenza trasversale che attraversa tutte le classi e i ceti e i dati generazionali, così come il conflitto di genere non è paragonabile a quello di classe, di razza, di religione.
Quasi tutti i media continuano a “dimenticare” di usare la parola femminicidio e parlano, quasi sempre di “raptus” dell’uomo, contestualizzando la violenza di genere come una dinamica di coppia. Il “tra moglie e marito non mettere il dito” non è mai sparito. Il movimento femminista, unica grande rivoluzione culturale del XX secolo ha messo dita, mani, corpo, cuore, sentimenti e mente per sdoganare ruoli predefiniti e ingabbianti, per sostenere che il proprio personale è sempre politico. La società si sta involvendo culturalmente, socialmente e giuridicamente, soprattutto sul terreno dei diritti universali e principalmente sul ruolo della donna nelle comunità e nelle relazioni.
Solo nel 1978 si è ottenuto con innumerevoli lotte che lo stupro fosse un reato contro la persona e non contro la morale. Il femminicidio è un reato contro la persona donna/femmina non un momento di follia dell’uomo; se così fosse saremmo circondati da persone di genere maschile, solo da pazze o malate. Dovremmo pensare, invece, anche come apparati di legge alla necessità di introdurre il reato di “femminicidio di identità” quando si sfigura il volto di una donna o qui si, ad una “legittima difesa” da parte delle donne aggredite a qualunque età e che se, riescono a difendersi, non possano essere soggette ad arresto o condanna.
Continuiamo a piangere un’altra donna uccisa, ma anche ad indignarci e ad agire con fermezza tutti i giorni e nelle aule di tribunale per un nuovo modo di stare al mondo, contro violenze, sfruttamenti ed ingiustizie, non per raggiungere una fantomatica uguaglianza con l’uomo, ma per la liberazione della donna dal giogo maschilista; così facendo potremmo liberare tutta l’umanità.