Perchè noi dovremmo essere in piazza il 19 settembre?
Perchè noi dovremmo essere in piazza il 19 settembre? Me lo chiedo e provo a darmi una risposta. La stampa non è libera, appartiene per la maggior parte ad una sola
persona e ai suoi prestanome. E’ una cosa nota a tutti eppure anni fa
quando si parlava di conflitto di interessi dal centro sinistra si levavano
voci di gradimento del riformismo bipartisan.
Poco male, mi dico. Il problema è qui e ora. Devo mandare giù il boccone
amaro e fare causa comune con una parte politica che ha grosse
responsabilità rispetto a quanto accade nel presente.La stampa non è libera, appartiene per la maggior parte ad una sola
persona e ai suoi prestanome. E’ una cosa nota a tutti eppure anni fa
quando si parlava di conflitto di interessi dal centro sinistra si levavano
voci di gradimento del riformismo bipartisan.
Poco male, mi dico. Il problema è qui e ora. Devo mandare giù il boccone
amaro e fare causa comune con una parte politica che ha grosse
responsabilità rispetto a quanto accade nel presente.
La stampa è lottizzata. Appartiene ai partiti, a poteri che talvolta
vivono in pax lobbistica e altre volte si fanno la guerra.
La stampa è fatta di servi di regime. È propaganda. E’ esercizio di
potere che difficilmente può essere attraversato, penetrato da soggetti
che vorrebbero godere di quell’articolo 21 della costituzione per mettere
a segno anche solo una frase ben assestata che non soddisfi nessuno, ma che
indubbiamente corrisponde ad una verità che pochi vogliono vedere.
La stampa in italia è una casta. Ricordo i pochi bravi professionisti e le
poche lungimiranti professioniste che guardavano noi volontari
dell’informazione indipendente senza temere la concorrenza, senza tentare
di irreggimentarci, senza provare a rimetterci tutti in fila per due, senza
lasciarsi prendere dai pruriti di denigrazione o di censura perché noi non
tiravamo le veline d’agenzia o di questura, perchè questo significava che
non eravamo qualificati, non avevamo le carte in regola, perché “per
fare questo mestiere bisogna conoscerlo”, perché ci sono regole da
seguire, perché in fondo il libero dissenso e le voci che si
autorappresentano fanno paura a tutti.
Era il 2001 e ci fu il g8 di genova e noi vituperati scribacchini del web,
quelli contro i media mainstream, quelli che si erano stufati di cercare
invano notizie che corrispondevano a quanto realmente accadeva, quelli che
usavano slogan come “non odiare i media, essilo”, registrammo uno degli
eventi più importanti che segnò l’inizio di una lunga stagione di
repressione che si realizzava su un registro vecchio e nuovo: strategia
della tensione, tecnica della paura, il terrore come arma per chiudere a
chiave una intera città, militarizzarla ed avere la libertà di attuarvi
ogni genere di violazione dei nostri diritti.
Subito dopo la tecnica repressiva si spinse fino alla perquisizione e al
sequestro di documenti e immagini, alla intimidazione di tutta indymedia
italia, alla punizione conseguente il fatto che noi, centinaia di persone
sparse a fare fotografie, video, a registrare attraverso la parola scritta
quanto avveniva, avevamo fatto crollare l’intero palazzo di bugie che
quelle istituzioni, le forze dell’ordine, la stampa asservita avevano
reso pubblico per giustificare la mattanza.
Noi scendemmo in piazza, l’Fsni al nostro fianco e con essa anche le
testate immediatamente di sinistra. Non ricordo di aver letto l’adesione
di repubblica o dell’unità, impegnate com’erano a stabilire la
differenza tra buoni e cattivi, a identificare la violenza con “alcuni”
manifestanti e a farsi portavoce delle forze dell’ordine e della loro
tesi di legittima difesa per ogni colpo inferto.
Ma poco male, mi dico. Il problema è qui e ora e devo fare causa comune
con una parte politica che in ogni caso quando parla di libertà di stampa
si riferisce alla libertà di veicolare quello che più gli piace, la
propria versione della verità, trascurando tutto ciò che ai suoi occhi
appare giusto un pochino più radicale della spinta vibrante, densa di
passione del politico sullo stile di d’alema.
La stampa, oggi, nel tempo di internet, della condivisione veloce di
notizie attraverso i social network, i blog, youtube e tutto ciò che
tecnicamente si avvierebbe verso il web 3.0, è una dimensione ancora più
obsoleta, terribilmente autoreferenziale, spesso al traino dei “volontari
dell’informazione indipendente” salvo delegittimarli quando è il caso
di incassare privilegi.
La stampa oggi è in guerra, parte attiva di uno scontro tra poteri che
giunge all’ultimo stadio e il cui livello è stato reso altissimo dai
suoi attori principali.
La stampa è ad uso e consumo di fazioni precise che adoperano cecchini per
infliggere colpi e poi chiamano il popolo a scendere in piazza per
difendere la loro battaglia.Così accade sempre, la storia ce lo insegna,
la gente viene armata, strumentalizzata – come viene strumentalizzata
l’indignazione – e ciascuno viene sollecitato a scendere in piazza su
spinta di potenti, feudatari, baroni, oppure di borghesi, notabili,
burocrati. Non saprei dire qual è la suddivisione attuale tra le forze in
campo. So solo che quando sono scesa in piazza per combattere le mie
battaglie, rispetto alle mie urgenze, c’erano in pochi e quasi mai erano
quelli che ora fanno la chiamata alle armi.
La stampa in questo ultimo periodo ha avuto il ruolo preciso di distrarre
l’opinione pubblica da questioni gravi che riguardano tutti noi. Ci siamo
concentrati sulla vita del presidente del consiglio e i giornali del
presidente del consiglio si sono concentrati sulla vita di un giornalista
cattolico e i giornali dell’opposizione hanno leso la privacy delle
escort per vendere qualche copia in più e i giornali della maggioranza
hanno detto che quelle escort hanno visitato i letti di tutti gli avversari
politici del premier.
La stampa ha legittimato la pratica dell’uso di scandali privati per
denigrare l’avversario. Qualunque cosa tu dica o faccia di cattivo se la
tua vita sessuale non corrisponde a quella che piace alla santa sede allora
puoi sempre dare del frocio al tuo detrattore e quello dovrà dimettersi
nel giro di pochi giorni. Qualunque cosa tu dica o faccia di buono se la
tua vita sessuale non corrisponde a quella che piace alla santa sede allora
non hai più alcun diritto di parlare.
E per fare corrispondere questa pratica oscena ad una sorta di volontà
popolare di chi sta a sinistra sono stati tirati fuori tutti i motti
femministi, parole e persino pareri illuminati di donne che hanno parlato
di pubblico e privato, di personale e politico dimenticando che il
personale/politico di cui abbiamo sempre parlato noi non era
gossip/politico e in ogni caso non riempiva un vuoto di capacità critica e
di azione politica visibile nell’attività parlamentare
dell’opposizione, completamente appiattita sulle ragioni della
maggioranza a proposito di temi etici e di soluzioni securitarie come
metodi di controllo sociale.
La stampa non è libera perché centro sinistra e centro destra non hanno
la più pallida idea di cosa si muova nel mondo del web. In entrambi i casi
l’ignoranza li ha portati e li porta a proporre provvedimenti che
limitano la libertà di espressione, le libertà digitali, che intercettano
tutti noi in qualunque nostra comunicazione come fossimo preventivamente in
stato di sorveglianza perciò tutti potenzialmente terroristi, pedofili,
delinquenti.
La stampa non è libera perché ancora prima della punibilità verso chi
pubblicherà le intercettazioni c’è da capire perché mai
l’informazione si sia ridotta ad essere l’eco delle procure di tutta
italia. Non c’è più una inchiesta decente, una ricerca ben fatta, una
narrazione documentata. Mi vengono in mente due esempi di giornalismo non
scandalistico, che non fa la sua fortuna facendo copia e incolla dalle
carte dei magistrati, che non spettacolarizzano il lavoro dei giudici ma
che si muove in tutt’altra direzione: report e presa diretta.
E anche questa è una cosa seria perché la stampa di questi anni è
diventata strumento di poteri e megafono di giustizialisti. Dimenticando il
ruolo fondamentale della stampa, che è quello di essere alternativa a
tutto, equidistante da tutto, indipendente da tutto, esclusivamente al
servizio della gente.
Poco male, mi dico. Il problema è qui e ora. Devo fare causa comune con
soggetti che sono responsabili della origine culturale di questo governo di
censura. Ne sono responsabili perché lo hanno sdoganato, perchè quello
che contava non erano le ragioni ideali ma lo spazio ottenuto. Quello
giusto, sufficiente, come fosse una tangente al silenzio, alla opposizione
pacata, dai toni bassi, non urlata.
Devo fare causa comune ben sapendo che quella stampa non scenderà in
piazza in favore di disoccupati, sgomberati, occupanti di edifici per
rivendicare il diritto alla casa, di precari, di persone che non hanno mai
creduto alla idiozia del capitalismo dal volto umano, del liberismo
intelligente, della privatizzazione socio compatibile.
Devo fare causa comune anche se la mia idea di welfare è completamente
diversa da quella di rosi bindi e di vittoria franco. Diversa da quella
della serracchiani e di franceschini.
Devo fare causa comune perché nonostante mi dia profondamente e
fisicamente fastidio immaginare di legittimare la loro politica miope
comunque hanno diritto ad esprimerla, come io ho il diritto di criticarla
in una gara dialettica che ci restituisce reciproca dignità. Questo è un
diritto non può essere leso mai.
Devo fare causa comune perché la querela per diffamazione è un proiettile
in fronte a chi si vuole far tacere. Un embargo economico che uccide sul
piano sociale chi pratica dissenso. Una bomba che colpisce uno per educarne
cento.
Devo fare causa comune perché io non ho mai pensato di querelare la
padania e il giornale per tutte le volgarità che pubblicano, per le offese
che ci infliggono. Chi invece si nutre della loro “cultura” pensa di
far tacere chi non è d’accordo attraverso apposita legislazione e
denunce mirate.
Devo fare causa comune perché mi fa troppo arrabbiare il fatto che non
venga data assistenza legale ai giornalisti di report, perché attaccare
vauro per vilipendio al reality di stato è una storia che dimostra
esattamente in che tempi viviamo.
Perché è da un bel pezzo che siamo in pieno fascismo ed è un bel dilemma
per tanti pezzi della sinistra che praticano l’antifascismo provando a
sfuggire alle strumentalizzazioni di chi nel centro sinistra quel fascismo
lo ha sdoganato.
Forse avremo l’onore di udire frasi partigiane uscire dalla bocca di chi
fino a qualche tempo fa dichiarava che il fascismo non esiste più. Solo
per vedere questo capovolgimento incoerente di intenzioni vale la pena
attraversare la piazza del 19 settembre.
E poi per report, per noi, per tutti quelli che vivono il web, per quelli
che fanno informazione dal basso e non hanno nessun riconoscimento,
privilegio né tutela.
Il 19 bisognerebbe esserci in modo critico a difendere il diritto a
scrivere e praticare il dissenso. Bisognerebbe esserci contro una offerta
informativa che in italia oramai è per la maggior parte sessista, razzista
e fascista.
Bisognerebbe esserci per chiedere una stampa libera dai monopoli di
qualunque genere. Per chiedere la fine della separazione tra stampa di
serie a e di serie b. Per chiedere l’abolizione dell’ordine.
Bisognerebbe esserci perché le donne hanno diritto di dissentire.
Dissentire da altre donne che parlano di un fantasioso e retorico silenzio
delle donne. Dissentire dalle testate che parlano di violenza maschile
sulle donne difendendo e veicolando la cultura patriarcale. Dissentire
dalla stampa moderata del centro sinistra che chiama “violente” le
donne che praticano un femminismo indipendente dai partiti politici,
radicale, con pregiudiziali antisessiste, antirazziste e antifasciste.
Dissentire su chi stabilisce quali siano le forme lecite di dissenso e
quali no. Dissentire dal pensiero unico, dalla pratica politica unica,
dalla rappresentanza politica unica, dal bipartitismo, bipolarismo,
biegocentrismo.
Bisognerebbe esserci innanzitutto per chiedere che noi si possa avere
garanzia di spazi di diffusione di ciò che pensiamo. Perché quando si
parla di libertà di stampa non posso certo solo parlare della libertà di
stampa di repubblica e l’unità.
La stampa non è garanzia di democraticità di un paese se non si evolve e
non si lascia penetrare da altre forme di comunicazione. Diventa solo una
delle tante cristallizzazioni del potere. La democraticità di un paese non
dipende mai da luoghi dediti all’autoconservazione del proprio status.
Bisognerebbe dunque esserci proprio per mettere in discussione qualunque
luogo di conservazione di poteri che non ammettono dissenso e progresso.
Stampa inclusa.
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