Per Marina Pivetta – Il ricordo di Enza Plotino
Tratto dal libro “Attraverso le mie donne, io correvo” di Enza Plotino“……. La mia prima casa è una catapecchia in cima ad un palazzo, piccolissima dentro ma con un meraviglioso terrazzo. L’ho conquistata, prima di tutto così, la città eterna. Guardandola dall’alto. Quella catapecchia è diventata poi, grazie al lavoro di Ciro, insieme al compagno Daniele, un delizioso nido di lotta e d’amore, che ha visto i passaggi più significativi della mia prima vita. Casa fiorita è il nome che le abbiamo dato. Nodo strategico dei miei primi passi nel mondo che volevo conquistare. E i miei primi passi hanno avuto bisogno di un gettone telefonico. E di un bar vicino alla stazione. Da lì, prendendo tutto il coraggio della mia giovane età e seguendo il consiglio di Dino, un caro compagno, squinternato, casinista ma lottatore appassionato contro le discriminazioni, che oggi non c’è più, ho fatto il numero di Paese Sera, dove sapevo esistere, un gruppo di donne, femministe, che facevano del loro lavoro giornalistico, lo strumento per affermare le loro differenze di genere. E’ da lì che volevo partire. E Marina ha risposto a quella mia telefonata. “Dino mi ha parlato di voi ed io sogno di poter partecipare ad un’esperienza così”. “Allora vieni, ti aspettiamo – mi ha risposto Marina”. Posso dire oggi, che quello è stato un giorno felice. Il mio disegno si stava componendo. Con i suoi capelli già grigi e la sua personalità accogliente, Marina è la persona a cui lego quel giorno felice. E, anche se contraddistinta da forti discussioni, la relazione con lei è stata sempre segnata dalla felicità di quel momento. Non sono mai riuscita a guardarla senza provare affetto per lei. Ed oggi, la penso con tenerezza…….….Roma era bellissima nella mia prima vita. L’ho già scritto, ma non posso non ripensarlo ogni qualvolta mi ricordo in movimento da una parte all’altra della città. E sicuramente il sole avrà illuminato palazzi, monumenti, strade, anche in quel giorno fatidico in cui sono andata per la prima volta a conoscere Marina, nella redazione di Paese Sera. In realtà era pomeriggio inoltrato, ma mi piace pensare che ci fosse il sole in quella importante giornata. Il giornale era sotto la galleria che collegava il Tritone con via Due Macelli. E la redazione dell’inserto “il Paese delle Donne”, era una grande sala piena di scrivanie. “Eccomi, sono qui. Vorrei far parte di te” forse avrò detto. Marina non era sola. C’erano altre donne con lei, tra le quali, due diventeranno fondamentali per me. Isabella e Franca. Come Marina, Isabella era veneziana. Fuggita dalla sua terra per inseguire il sogno comunista, era appassionata, dubbiosa fin nelle viscere, in cerca di stabilità affettiva con il figlio Federico. Non l’ha mai trovata quella stabilità. Ma il suo ruolo di insegnante e le lunghe sedute psicanalitiche le hanno permesso di esorcizzarla e scongiurare le conseguenze negative di quella mancanza. Franca era l’esatto opposto di noialtre. Era una gentile e raffinata signora della borghesia romana. Sempre pettinata con cura, composta (come avrebbe detto mia madre), ma come lei, poi ho scoperto, ce ne erano altre di donne che frequentavano quel giornale. Una persona che non immagineresti di trovare mai in una redazione di un giornale comunista. Perché quello era allora Paese Sera. Ma Franca c’era e non stonava. Così come non stoneranno tutte le altre. Ci si sentiva forti abbastanza da reggere le diversità profonde che c’erano tra tutte noi e nel rapporto con la struttura redazionale. Da questo incontro, accoglienza e confronto tra diversità profonde, ho imparato uno dei più importanti valori della mia vita: il rispetto della diversità. Ed oggi, anche mia figlia Aurora è consapevole e orgogliosa della sua diversità, la nomina, la rivendica ed accoglie con naturalezza quella altrui. In quel tempo e in quel giornale non l’abbiamo mai teorizzata quella diversità, ma l’abbiamo praticata dal primo momento in cui abbiamo iniziato a lavorare insieme. La scrittura era il nostro strumento di lotta e di esperienza professionale. Scrivevamo di donne, di emancipazione e poi pian piano di differenza di genere e davamo conto di tutte le iniziative che in quel tempo fiorivano nella cultura, nella politica, nel mondo della scuola. Era ricco quel momento. Dal primo istante in cui ho messo piede in quel luogo, ho avuto la sensazione di un credito che mi era stato aperto in nome di una sorellanza politica piuttosto che di una “colleganza” professionale. Era quello che cercavo e ci ho messo tutto il mio impegno per non venir meno a quella fiducia. Isabella era un fiume di parole. Un torrente di dubbi, ripensamenti, incertezze, sempre platealmente spiattellate senza remore. Franca si rifugiava nei numeri. Era lì perché ne conosceva la certezza matematica ed era rimasta fedele a quella nicchia protetta. Era la contabile del gruppo, anche se non c’era molto da contabilizzare. Ed è sempre stato prezioso, per il Paese delle Donne, il suo ruolo di amministratrice. Un punto fermo. E poi c’erano Antonella, Sesa, Gioia, Giovanna, Carla. E tante altre, di cui non ricordo più i nomi. Io ero la più giovane. Lo sottolineo, non perché voglia farmene vanto, ma perché alla luce della storia del movimento femminista romano di quegli anni, io sono stata una mosca bianca nel panorama di tutte le giovani donne che si avvicineranno, anche in seguito, al movimento. Era un’aria di chi lavora di mente, quella che si respirava in quella redazione. Di donne che stavano contribuendo, chi in politica, chi nelle professioni, chi nella militanza, a cambiare la storia del genere femminile. Trasformazioni che renderanno più libere anche le giovani generazioni. Forse inconsapevolmente, ma più libere. E gli incubatori di questa rivoluzione erano i luoghi occupati, i primi centri sociali, le università, ma anche tutta l’area della sinistra, con i partiti e i mezzi di comunicazione. Punti di riferimento importanti a Roma, anche il Governo vecchio occupato, la Libreria delle Donne di Piazza Farnese, l’area femminile del Pci. Sì c’era contiguità, anche se a volte molto conflittuale, ma dinamica e innovativa, tra le donne che avevano scelto di impegnarsi nei partiti e le altre. E la redazione del Paese era uno di quei luoghi dove avveniva l’incontro. E dove, le storie si intrecciavano tra loro e il lavoro comune per “far uscire il giornale” produceva quel cambio di passo culturale che contribuirà a mantenere viva la rivoluzione femminile in quegli anni e per le generazioni future. Volutamente non ho ancora raccontato di colei che più di altre, molto di più, segnerà quel periodo fondamentale della mia vita. E’ Marina. Lei è stata la mia seconda madre, colei che mi ha accompagnato nel periodo decisivo per la mia affermazione personale ma anche per la mia formazione professionale. Quello che io sono oggi, lo devo anche al suo incoraggiamento, alla sua apertura di credito nei miei confronti. Il suo coraggio mi ha incoraggiata, la sua determinazione mi ha convinta che stavo dalla parte giusta, la sua onestà intellettuale e la sua acutezza politica sono serviti a me per posizionarmi nel mondo e a mia figlia Aurora per entrare nel mondo degli adulti con la consapevolezza di portare valore.Già la sua voce mi aveva bendisposta, quel primo giorno, nella redazione di Paese Sera. Era dolce, accogliente, ed anche dopo, nei momenti di conflitto più forte tra di noi, la sua voce non mi trasmetterà mai brutte sensazioni. Le parole forse saranno dolorose, ma quella voce rimarrà sempre contenuta e gentile. Era veneziana, come Isabella, e spesso raccontava dell’anomalia di nascere nell’acqua. Di alzarsi la mattina e non meravigliarsi se l’acqua aveva invaso il bagno e arrivava alle caviglie. Diceva: “sono cresciuta con una sensazione di umidiccio nei piedi”. Che un po’ la infastidiva, un po’ l’aveva obbligata ad accettare gli scombussolamenti improvvisi e a dargli un senso sempre positivo. Non è con lei che ho imparato a scrivere, ma Marina mi ha insegnato a rendere i miei racconti sempre scorretti ,mai fintamente obiettivi. Sempre alla ricerca della parte migliore di noi, del segno distintivo che ognuno lascia di sé. E con cui vuole incidere nell’arte, nelle professioni, nella vita. Ho raccontato storie, riportato idee, valorizzato pensieri e la mia macchina da scrivere prima, il computer poi, hanno risentito di quel forte segno femminile. Desideravo scrivere, ambivo ad un giornalismo di lotta (se c’è mai stata questa categoria), a lasciare il segno con la mia penna, e lei me ne ha dato la possibilità. Così come ha fatto con me, Marina è riuscita ad assortire e tenere insieme un gruppo, improponibile all’esterno da quella redazione, di donne di diversissima estrazione sociale, di differenti provenienze politiche e le ha guidate in quell’esperienza straordinaria di un giornale interamente pensato e costruito da una redazione tutta femminile. Quel Paese nel Paese ha dato voce ad un periodo ricchissimo di azioni, di iniziative e ad un’area di donne che, non solo si stava emancipando dal maschile, rivendicandone gli stessi diritti, ma iniziava a diffondere le teorizzazioni sulla differenza tra i generi e a renderle fruibili per tutti…..”