Califfato e Unorthodox: due serie tv per riflettere sulla tossicità del fondamentalismo religioso
Che fatica, adesso, scrivere dell’oggi: le notizie, insieme al virus, corrono più veloci della capacità di riflettere e quindi, tranne che per evitare di precipitare in un burrone, non è mai utile re-agire d’impulso, attitudine purtroppo alimentata dal sistema tossico della propaganda social. Coincidenza significativa, casualità, sincronicità: mentre sotto il cielo di Roma in lacrime il Papa invoca dio per fermare la pandemia ecco la solerte nota dell’Isis che celebra il virus come angelo sterminatore degli infedeli. La questione religiosa, il peso politico della fede, o della sua assenza, è un tema che intreccia il bisogno intimo e personale di certezza e di prospettiva con quello di risposte collettive alle domande sul senso del presente.
Sarà, appunto, la congiuntura ma sono ben due, e bellissime, le serie tv a tema politico/religioso rilasciate proprio in queste settimane: in entrambe il cuore della narrazione sono storie di donne coraggiose e anelanti alla liberazione dalle catene patriarcali forgiate nel nome di un dio.
Parlo di Califfato, prodotto in Svezia e girato in 8 puntate tra Stoccolma e la Giordania e Unorthodox, miniserie in 4 episodi tratta dall’autobiografia di Deborah Feldman pubblicata in Italia con il titolo Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche.
Più cupa e violenta la prima serie, anche perché la realtà dell’enclave islamica non lascia scampo a chi ne è vittima, lirica e potente la seconda, entrambe le serie sono strumenti molto utili per alimentare il pensiero critico e i dubbi sulla intoccabilità del pensiero religioso, talvolta invocata per una presunta preoccupazione, a sinistra, di scivolamento nel razzismo. Il messaggio più forte delle due serie è senz’altro quello di testimoniare che il corpo femminile, il suo controllo e la sua mortificazione è la cartina di tornasole per valutare il livello di democrazia di una società e l’equità della sua visione delle relazioni.
Da una parte, in Califfato, il rapporto tra la poliziotta svedese di origine russa Fatima e la giovane Parvin, reclusa in Siria a Raqqa come molte ragazze che seguono un uomo radicalizzato, dall’altra in Unorthodox Esty, diciannovenne ebrea che fugge a Berlino da un matrimonio combinato a New York nella chiusa comunità chassidica; le loro vite sono due aspetti speculari della violenza impositiva delle regole religiose che inibiscono la libertà delle donne nel nome del bene collettivo identitario, e per farlo puntano al controllo assoluto dell’unica minaccia al cieco consenso: l’autodeterminazione femminile.
Parvin da una parte e Esty dall’altra, fatte le debite distinzioni per la diversità delle condizioni date, sono le voci dissonanti che incrinano il comodo sistema dell’obbedienza nel nome della difesa dell’ordine e della tradizione. Dal controllo della sessualità alla mortificazione della creatività, dall’ossessione per il corpo delle donne (come puntualmente evidenziato in Anatomia dell’oppressione dalle attiviste Femen Shevckenko e Hillier) al dominio delle regole sui sentimenti le due proposte narrative sono un apologo per riflettere sulle relazioni umane, che mai come nel totalitarismo a sfondo religioso perdono centralità affogando nella gerarchia che annichilisce la ragione.
Lo spazio pubblico e quello privato sono invasi dal lugubre primato della legge dei padri padroni e delle madri custodi di un assolutismo disumano che annienta, per prime, proprio loro stesse e le figlie.
Fisicamente tanto più fragili all’apparenza quanto nella realtà fortissime nel proposito di realizzare i loro sogni Parvin ed Esty sono figure tragiche potentissime e ispirative anche perché, nonostante tutto, cercano il dialogo con l’altro da sé: uomini deboli, prigionieri del loro stesso autoritarismo ma totalmente privi di autorevolezza, corazzati da armi, materiali e ideologiche, le cui munizioni sono inefficaci a fermare il desiderio di libertà e di vita autentica.