Il 25 marzo, come sappiamo, è dal 2020 la Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, perché data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’aldilà della Divina Commedia.

Quest’anno, in particolare, il Dantedì ha avuto una grande risonanza, ricorrendo il settecentesimo anniversario della morte del grande poeta. In questa occasione Franca Bellucci ha dato spazio all’ispirazione poetica, parlandoci in versi del ‘suo’ Dante, lei che è stata per tanti anni docente di lettere classiche nella scuola superiore. Storica delle donne e appassionata cultrice di didattica, infatti, l’empolese Franca Bellucci sostiene anche la fatica del pensare poeticamente il reale: tra le sue più recenti sillogi Mare d’amare donne. Rapsodia (2016) e DensoNovecento (2020). La sua arte si gioca sul doppio binario di un amore profondo verso i classici e di un’apertura esistenziale alla modernità, capace di reinterrogare e rileggere il passato. Così possiamo capire perché l’intuizione poetica del componimento che qui ci offre sia come cesellata dalla lunga frequentazione letteraria, ma non di meno indichi apertamente, attraverso la storia di Dante, le contraddizioni e le tensioni che sono carne e sangue del nostro vivere oggi, come donne e uomini.


DANTE, LA LINGUA SOTTRATTA ALLA RUINA
E come sento questo luogo caro,
estensione di me,
compreso o disputato lungo i giorni,
così cara è la cantica lasciata
accanto a me e a noi, voce sublime.
La fatica austera che profuse
e pretese nell’aula chi insegnava
a me studente
è un vallo ormai che dietro sfoca
nelle orme di memoria
riconciliate e incerte
della mia giovinezza
tenace e timida.
Il tuo fantasma, poeta nostro,
mi è ora familiare
come un intenso intriso di dolore
costruire sapiente.
Pietre e torri e sacrali
oltre lo schermo del sapere esperto
è la parola che apre all’esperienza
del vivere sociale,
che fa gioia di dono
per ogni cittadino
e d’incremento.


E tale a me tu appari,
scavato dentro
in verticale abisso di dolore
pur fermo in faccia al messo
alla locanda
prossima all’ardua Siena.
Non diverso il grido e il venir meno,
l’accasciarsi e ammutire
forse del padre, che del tuo amico
previene e esilio e vita.
Un punto grave di tempesta, più
del sospiro chiuso
che lo sperduto suono di campana
richiama a sera
al cuor del viandante preparato.
Specchio lo pongo al cedimento
‒ ché speranza di sciogliere l’esilio
giammai fu di sollievo
a Guido Cavalcanti,
all’amico amante e tormentato ‒
che sgretolò l’accorto vivere tuo
mirato alla famiglia
alla città e allo studio.
Ma pur ti vedo chiuso nel pallore
e nello sguardo fermo che sul nunzio
pareva indagatore.

Crollo di pietre ben commesse, udivi
crosciare nella mente
come rovina senza fine:
quale dalla torre Nembrod gigante
di sprezzante potere
volato giù traverso in mezzo al mugghio
delle parole fatue:
quale stolido autocrate potere
che sbandisce dal popolo
la lingua della storia e del gioire.

Tu, padre saggio,
nel crollo della vita
schegge recuperasti
e pietre e smalti,
per rinnovare l’ordine e l’esempio
agli incroci del recepito
dire e pensato.

Così nel duro tempo
quando più acre dentro
l’ansia declina a me
in seno d’onda,
speranza è la tua voce: che anticipa
il ritornare al colmo
del mio auspicio e ansia di bonaccia.
Così cerco tra i versi cari tuoi
“il pappo e il dindi”,
le parole della madre e del padre
ai figli piccoletti
quando dall’una all’altro
provano i passi.
E alla donna penso, al nunzio
che tu stesso le invii del tuo destino,
al suo farsi parole nel dolore.

«Sottratto alla mia attesa
all’attesa dei figli,
ricordati di me,
gemente Gemma.
Per me donna
sia parte nel tuo spazio,
che accorto costruisci a palmo a palmo.
Lo stesso io guardo
dagli spazi di dita sopra al volto».

Franca Bellucci
franca.bellucci@gmail.com
28.03.2021