Tull Quadze/Tutte le donne. Una piazza non complice e la rivoluzione della cura
Gremita e assolata, Piazza del Popolo si è riempita delle voci di donne, tante e diverse, e di uomini che hanno risposto all’invito dell’Assemblea della Magnolia, dal nome della bellissima pianta cresciuta nel giardino della Casa internazionale delle donne di Roma e che ne ha ombreggiato e profumato le lotte.
Tull Quadze/Tutte le donne. La voce delle donne per prendersi cura del mondo, è la prima manifestazione femminista dopo il lockdown, aperta simbolicamente da un’afghana: nell’antica lingua pashtun è stato letto un landai (letteralmente “piccolo serpente velenoso”) con cui le donne in segreto denunciano violenze e soprusi. “L’Afghanistan è il tragico specchio del cinismo di tutti i poteri, dei torbidi inganni del paternalismo della cura che funziona solo con i cerchi concentrici del prima la famiglia, la nazione, mai la comune umanità. Per questo, quel che accade nel Paese è della stessa pasta delle morti nel Mediterraneo, delle torture in Libia, degli accampamenti nei Balcani” afferma il documento firmato da molte case delle donne e singol* del mondo dei movimenti, dei sindacati, della cultura, dell’arte, dello spettacolo e della politica.
La guerra in Afghanistan, dopo le Torri gemelle, ha coperto gli interessi geopolitici con lo slogan della liberazione delle donne dal burka che, azzurro o nero, non è mai uscito di scena tranne in qualche quartiere cittadino a forte presenza occidentale, come a Kabul, rimanendo il resto del Paese ancorato a tradizioni sessiste che impongono alle donne invisibilità e sottomissione. Lì la presenza talebana – organizzazione politico-militare che aveva imposto la legge coranica già alla sua prima presa di potere (1996-2001), avvantaggiandosi degli eventi, si è imposta, fondando il suo governo “teocratico” sull’illibertà femminile.
“In vent’anni, l’Afghanistan era già stato messo nelle mani dei Signori della guerra che l’hanno trasformato in uno Stato mafia” ha detto Lorena Di Lorenzo, “La cosa peggiore e imperdonabile è stato ridare forza e potere ai Talebani, rilasciare i loro prigionieri e fare la commedia dei colloqui di pace. Questi vent’anni hanno lasciato l’Afghanistan in un bagno di sangue con una forte corruzione e una grande insicurezza. Nel caos in cui gli Usa hanno lasciato il Paese, i Talebani lo hanno conquistato quasi senza combattere.”
Al momento, hanno detto in apertura le Afghane, sono i Talebani a decidere per ogni donna e bambina quello che deve fare, chi deve sposare, come si deve vestire, quando e come si deve muovere e persino ridere per non “disturbare”, ma non si può pretendere di dire alle donne afgane cosa debbano fare e chiedere loro l’impossibile, già in molte pagando costi personali e collettivi altissimi.
Gli interventi, tutti appassionati e propositivi, coordinati da Veronica Pivetti e da Arianna Ciampoli, hanno espresso solidarietà, unità nel denunciare le violenze in corso in Afghanistan e il sessismo anche nel nostro Paese e nel mondo. Tutte hanno chiesto di mantenere alta l’attenzione sulle donne afghane e sulle vicende di un Paese che, data la sua storia e le premesse, non ha un orizzonte di pace e di sviluppo sia per le tensioni interne sia per gli appetiti geopolitici di molte potenze, crocevia di traffici internazionali di droga e di armi, e piegato da decenni di guerra, povertà e carestia.
Maura Cossutta, presidente dell’Aps Casa internazionale delle donne, ha condiviso la gioia per la “grande vittoria ottenuta grazie all’impegno di tant*” con una Delibera che riconosce la Casa “sia come luogo simbolico della storia del femminismo che come luogo politico dove c’è pensiero, pratiche del femminismo di cui, oggi, c’è sempre più bisogno”. Nel riassumere il percorso della Magnolia partecipato da tante e diverse soggettività e basato “su una diversa narrazione e sulla volontà di realizzare un vero cambiamento”, Cossutta ha ringraziato le Afghane “…le donne che sono scappate, quelle che sono rimaste o che scapperanno, quelle che hanno deciso di resistere”, poiché “le loro parole parlano a tutte le donnedi diritti e della libertà di esistere, di scegliere, di vivere.” Parlano anche a noi poiché, pur senza il feroce volto talebano, il patriarcato sussiste nel nostro Paese “…dove i femminicidi sono una mattanza; la violenza istituzionale scrive sentenze indecenti sulla violenza alle donne e ritorna la cultura della colpa per le donne che abortiscono; ci sono i cimiteri dei feti.”
Cossutta ha ricordato come il Covid abbia “impartito una lezione che ci ha dato ragione ma è stata messa tra parentesi”. La risposta è la rivoluzione della cura, un termine non inteso in senso tradizionale, come destino biologico, un obbligo per le donne, ma come “un diritto sociale, una responsabilità pubblica che mette al centro i bisogni della vita, il rispetto per l’altr*, il riconoscimento delle libertà di tutt* a partire dal diritto di cittadinanza e dal riconoscimento delle soggettività, Lgbtq.”
Denunciata la politica dei piccoli passi e la dilagante precarietà che infierisce specialmente sulle donne, Cossutta ha chiesto “assunzioni straordinarie nella pubblica amministrazione, infrastrutture sociali, welfare, sanità, scuola e servizi sociali. “Oggi siamo in piazza e continueremo a esserci” ha detto, “ci sarà la finanziaria e altre leggi. Le scelte devono essere valutate ex ante ed ex post per i diritti e le libertà delle donne. Siamo con le donne e con gli uomini, con i giovani, con i ragazzi e le ragazze della Black slai matter (rete sindacale internazionale) e con tutt* quell* che sono convint* che bisogna cambiare il mondo, le nostre società, le nostre vite perché non c’è più tempo.”
Simona Lanzoni, dell’associazione Pangea (da vent’anni impegnata anche in Afghanistan), ha chiesto un tavolo di confronto e una commissione specifica sui diritti delle donne in Afghanistan, sia a livello Onu che degli Affari Esteri: “Non possiamo retrocedere sui diritti delle Afgane all’istruzione, al lavoro, al sociale, alla cultura, alla partecipazione politica nei processi di pace. Non perdono solo loro. Perdiamo tutte. Siamo tutte Afgane! Non si può permettere ai Talebani di riportare le donne al Medioevo, gli occhi del mondo devono rimanere puntati su di loro.”
Il notevole contributo dato da Pangea nell’evacuazione dall’Afghanistan di questo Agosto ha rivelato quanto sia stato più difficile per le donne che “rimanevano indietro, rimanevano fuori”. “Non solo gli uomini fanno la guerra ma sono anche quelli che scappano perché hanno più forza di farlo, hanno il permesso di scappare” ha detto Lanzoni chiedendo che le attiviste che in questi vent’anni hanno lottato per le libertà di tutte siano aiutate a lasciare il Paese dove i Talebani le hanno minacciate di morte e le stanno cercando nelle case. “Bisogna rimanere in Afghanistan a lavorare, per lo sviluppo e per mantenere alta la consapevolezza di tutt*”.
Simona Lanzoni ha quindi fatto da interprete a due giovani colleghe Afghane che entrambe hanno vivamente ringraziato per la manifestazione di solidarietà e lasciato due messaggi:
a) “Non avrei mai pensato di essere qui, non per non essere con voi ma perché mi è stato difficilissimo e dolorosissimo lasciare l’Afghanistan. Noi donne abbiamo creduto che l’educazione fosse la nostra strada per la libertà e abbiamo visto tutto svanire in poco tempo. Continueremo a combattere per le donne, i bambini, l’umanità. I Talebani dicono che le donne sono nate per mangiare, bere, stare a casa, dormire, invece noi vogliamo studiare, avere la nostra libertà. Molte Afghane fuori dal Paese vogliono tornarvi perché vogliono ricostruirlo. Senza le donne non si ricostruisce nessun Afghanistan. L’associazione Pangea è stata la nostra vita, la nostra missione; abbiamo passato la frontiera con la P (Pangea) scritta sul palmo della mano; una P che è anche pace e progresso; tutte cose di cui abbiamo bisogno.”
b) Vivere con i Talebani… non avrei mai immaginato di provare tanto dolore quando l’ho visto per la prima volta. Respirare libertà, educazione e studio… solo in questa maniera saremo libere. Non possono rimuoverci facilmente dalla società e dalla storia del nostro Paese perché siamo parte dell’Afghanistan. Continueremo a combattere con la nostra testa, i nostri pensieri, il nostro cuore, il nostro dolore, le nostre parole. Lo faremo dentro e fuori l’Afghanistan. Voglio dire alle sorelle rimaste nel Paese: quando voi manifestate, lo fate per tutte noi, per tutta la nazione afghana. Siete l’unica luce che ci viene dall’Afghanistan, siete una luce per tutti noi.
Molto presto, è stato detto dalle Afghane, gli attivisti di enti internazionali saranno banditi, il silenzio calerà sull’Afghanistan. La richiesta è di non essere dimenticati, di continuare a dare solidarietà alla popolazione e sostegno, anche economico, a quelle organizzazioni afghane che hanno operato per la libertà e i diritti (es. Rawa) e continueranno a farlo, in clandestinità.
È stato chiesto il non riconoscimento del governo talebano, il proseguimento dell’evacuazione (in pochi giorni sono state evacuate più di 120.000 persone) e di non scaricarne l’onere, e d’accoglienza, sui paesi limitrofi.
Come ha dichiarato Luisa Rizzitelli (One Bilion Rising), il silenzio, la sottovalutazione o la mancata condanna di quanto sta avvenendo in Afghanistan ci rende complici del disastro in cui l’Occidente ha precipitato quel Paese, specie con il caotico ritiro degli Usa. I Talebani non sono cambiati rispetto alle donne e ne vogliono azzerare ogni diritto.
“Essere complici di una situazione così orribile vuole dire essere destinate a veder arretrare anche i nostri diritti e non solo sul lavoro, mentre noi già sopportiamo l’insopportabile nel nostro Paese. Lo sopportiamo sul tema della violenza; lo sopportiamo sul lavoro; sull’impossibilità di lavorare ed essere madri; sopportiamo politiche che ci impediscono di stare insieme alle nostre compagne e ai nostri compagni, alle nostre figlie e ai nostri figli”. E ancora: “Siamo qui a parlare con qualcuno che non vede l’ora, per la sua politica misogina e machista, omofoba, di diventare il premier di questo paese. Se vince le elezioni cancella ogni parola del femminismo (…). Noi in Italia siamo forti, ma dobbiamo essere unite. Ora più che mai! Noi non trattiamo e non vogliamo che si tratti con i Talebani ma sia chiaro che non trattiamo neanche con chi nel nostro Paese con i sorrisi, le pacche sulle spalle, i colletti bianchi, ci presenta Commissioni fatte solo di uomini ignorando la parità di genere, la parità salariale, l’equità di rappresentanza. Sono diritti costituzionali, non elemosine. Noi non trattiamo con chi non si vergogna dei dati sulla disoccupazione femminile, di licenziare una donna perché incinta. La libertà delle sorelle afghane non può essere il prezzo della politica scellerata che sta portando il pianeta alla distruzione. La libertà delle donne non è merce di scambio. Uniamo le donne del mondo e gli uomini che vogliono stare loro accanto. Il momento del governo delle donne per salvare il pianeta dalla distruzione è arrivato e le donne sono pronte.”
Intervenuta a sua volta, Linda Laura Sabatini ha tracciato un quadro veritiero e molto preoccupante del lavoro e della disoccupazione femminile in Italia. Rispetto all’Afghanistan, ha riconosciuto alle Afghane una grande forza e un grande coraggio: “Dobbiamo avere la capacità di dare loro voce e trasmettere la nostra forza perché la loro forza è la nostra e la nostra e la loro. Dobbiamo mobilitarci permanentemente, adesso ancora se ne parla ma presto ci sarà il silenzio e lì sarà durissima. Un secondo elemento è che noi siamo state tutte molto colpite dalla vicenda afghana e dobbiamo interrogarci sul perché: è lo specchio di un patriarcato che riaffiora nel modo più barbarico e terribile, nella forma più estrema. Laddove i diritti umani delle donne sono toccati, è una cartina di tornasole che i diritti umani sono complessivamente attaccati.
Un terzo elemento è ottenere corridoi umanitari permanenti e un organismo internazionale che controlli e vigili a che le donne siano rispettate.
Anche in Italia ci dobbiamo impegnare. Noi abbiamo diritti formali e non sostanziali. Dobbiamo trasformarli in sostanziali. O sono capaci a farlo o si dimettessero.
Sul palco, a infervorare la piazza, gli interventi di Susanna Camusso (CGIL), di cui anticipiamo un commento: “La valutazione di questo momento della manifestazione è positiva per la presenza e la partecipazione e anche per l’avere rotto un lungo periodo in cui un po’ per la pandemia e un po’ per il carico pesantissimo che ha rappresentato per le donne, era quasi difficile immaginare di ripigliarsi la piazza e bisognava giustamente riprendere parola. Poi c’è una straordinaria espressione di sorellanza che non è solo solidarietà ma la convinzione di poter e dover fare, per noi e per la nostra libertà che serve anche da elemento di forza per tutte le altre.
Non ci sono scelte politiche, siamo un “noi” inteso come un grande collettivo.
La rivoluzione della cura non si fa con le parole ma nella concretezza e riguarda ogni aspetto del lavoro, della sanità, dei servizi e della scuola.”