“Donne e follia in Piemonte. Storie e immagini di vite femminili rinchiuse nei manicomi” di Bruna Bertolo – 2° Premio ex aequo sezione SAGGISTICA al XXII Premio Il Paese delle Donne
La ricerca approfondita da cui è scaturito il libro è evidente già dall’arco temporale preso in esame, che va dall’Ottocento alla legge Basaglia, n. 180 del 1978 e dall’Indice; quest’ultimo traccia nomi, luoghi, metodi di cura, ma anche lo sguardo delle pazienti verso se stesse e quello della società nei confronti delle ‘pazze’, ‘malate di mente’, il che spesso equivaleva, anche per coloro che venivano dimesse, a essere considerate incurabili; l’attenzione data dal neofemminismo degli anni Settanta a tutte le forme di devianza mentale attribuite alle donne non sono state certo casuali. La follia, come l’isteria sono state femminili non solo nella grammatica ma anche nella diagnostica e nell’attribuzione delle patologie. L’utero per le donne era fondamentale nel compito riproduttivo, ma anche una perenne minaccia dal punto di vista mentale perché poteva capovolgersi, raggiungere la gola provocando il soffocamento e, di fatto, reazioni isteriche. Del resto, bastava poco alle donne di ogni età per diventare ‘malate di mente’: essere troppo tristi, troppo allegre, ridere smodatamente, uscire senza controlli, mostrare apertamente il desiderio sessuale, fare scelte controcorrente. Né va dimenticato del resto che poteva trattarsi di un comodo espediente per liberarsi di una moglie ingombrante, così come la costruzione di un ‘delitto d’onore’ in tempi in cui il divorzio era inesistente.
Nelle pagine che riportano “i numeri della pazzia” compare il Museo di Antropologia criminale Cesare Lombroso dell’Università di Torino, con un pannello che sintetizza appunto i numeri, dall’Ottocento alla legge Basaglia: nel 1865, i/le ricoverat* nei manicomi italiani erano 7.7000, uno/una ogni 4.000 abitanti, salit*, nel 1881, a 18.000 e a fine secolo a 27.000. Chiamarli però ospedali psichiatrici non era aderente alla realtà, essendo più luoghi di segregazione piuttosto che cura.
Le vite vissute raccontano meglio di ogni altra descrizione. Angiolina aveva 70 anni quando nel 1990 la ricercatrice Anna Maria Bruzzone la intervistò, per raccontare storie di donne in manicomio durante la Seconda Guerra mondiale: nata a Settimo Torinese, orfana di madre, figlia di un militare, in Collegio da bambina e sarta in gioventù, aveva vissuto l’esperienza del manicomio, definito nel libro ‘casa delle matte’ di Torino. Era rimasta nubile perché come lei stessa sosteneva, avendo periodiche ricadute, ogni due anni, si chiedeva: “…come posso fare famiglia”? Il fidanzato prima di partire per la leva, le aveva detto chiaramente alla fidanzata diciottenne che aveva ‘il cervello debole’. Nella sua mente era sempre rimasto vivo il ricordo delle tante file di letti con le pazienti che gridavano impedendo il sonno, e anche della sonda impiegata per quelle che non volevano mangiare, che ricorda peraltro il trattamento riservato alle suffragiste inglesi per lo sciopero della fame. La direzione era riservata alle suore che sorvegliavano l’operato delle infermiere. Un volume ricco anche di immagini, che testimonia percorsi di vita dalla durata incerta, perché ‘la cura’ poteva essere insufficiente e il ricovero in manicomio sovente senza possibilità di uscita.