Non solo padri nel Manifesto di Ventotene. Il disegno politico di una Europa unita
Sarebbe stato impensabile come cittadine e cittadini europei lasciare il 2021 senza ricordare il Manifesto di Ventotene, concepito e scritto durante il confino da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. Anche l’idea dell’unità europea trova sostegno e diffusione durante la lotta di Resistenza: in piena clandestinità e poi nel confino antifascista l’idea europea federalista trova un acceso sostenitore in Altiero Spinelli; aveva aderito giovanissimo al PCI, entrando subito in clandestinità contro il regime fascista; nel 1927 dopo essere stato arrestato è condannato a dieci anni di carcere e sei di confino. È nel suo esilio a Ventotene che il dissidente italiano formula, con il contributo di Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, il famoso Manifesto di Ventotene. Nell’agosto 1943, ottenuta la piena libertà, Spinelli promuove la fondazione del Movimento Federalista Europeo. Negli anni Cinquanta, grazie ad esso, la questione politica della costituente europea e di una Comunità Europea di Difesa (CED) guadagna la centralità del dibattito politico in Europa. Dopo l’abbandono del MFE, nel 1970 Spinelli diventa membro della Commissione esecutiva della CEE. Nel decennio 1976-86, Spinelli fa parte del Parlamento europeo, assumendo negli ultimi due anni anche la carica di presidente della Commissione istituzionale. La sua proposta di Trattato di Unione europea viene accettata a larga maggioranza il 14 febbraio 1984, ma gli interessi delle diverse nazioni europee trasformano il progetto in un più blando Atto Unico europeo, che comunque sancisce la definitiva consacrazione del Parlamento europeo.
La novità della riflessione di Spinelli sta anche nel giudizio sulla guerra. Essa, rispetto alla realtà del secolo precedente, era divenuta totale, non più, quindi, scontro tra eserciti, ma cataclisma che si abbatte sui popoli. Per annullare la possibilità di una guerra di tale portata c’è solo il federalismo, che muove verso la disarticolazione dell’unità statuale e tende a una superiore unità, al di sopra dello Stato. Sovranità assoluta e stato-nazione sono quindi gli avversari del federalismo europeo concepito da Spinelli. Ovviamente, l’integrazione più dannosa tra questi due poteri, sovranità assoluta e principio nazionale, Spinelli l’identifica negli Stati fascisti che negli anni Quaranta appaiono come la principale minaccia alla pace. Il Manifesto afferma come priorità la formazione di un “esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica”. Ma quali caratteri specifici deve avere questa nuova Europa? Innanzitutto, deve essere “socialista”, dove per questo termine Spinelli intende “l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita”. Del Manifesto, ricorda Spinelli, scrissi i capitoli che trattavano della crisi della civiltà europea, dell’unità europea come compito preminente del dopoguerra e del partito rivoluzionario necessario per realizzarla. Ernesto Rossi scrisse il capitolo sulla riforma della società da affrontare nel dopoguerra, ma ne discutemmo insieme ogni paragrafo, e riconosco ancora giri di pensiero caratteristici dell’uno di noi due nelle parti scritte dall’altro. Mi sono spesso chiesto cosa abbiamo apportato di originale nel Manifesto. Non dicevamo cose nuove, né quando parlavamo della crisi della civiltà europea, né quando presentavamo l’idea della federazione. Altri l’avevano già fatto, certamente meglio di noi. Ciononostante, il Manifesto è stato ed è ancora un testo vivo e significativo per molti suoi lettori, soprattutto grazie a due idee politiche che gli erano proprie. La prima è che la federazione non viene presentata come un bell’ideale, cui rendere omaggio per occuparsi poi d’altro, ma come un obiettivo per la cui realizzazione bisognava agire ora, nella nostra attuale generazione. Non si trattava di un invito a sognare, ma di un invito ad operare.
La seconda idea significativa consisteva nel dire che la lotta per l’unità europea avrebbe creato un nuovo spartiacque fra le correnti politiche, diverso da quello del passato. La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari -si può leggere nel Manifesto- cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale; una volta conquistato il potere nazionale, lo adopreranno come strumento per realizzare l’unità internazionale[1].
La narrazione del Manifesto di Ventotene non molto conosciuta dai giovani è ancora più parziale se riferita alle madri del Manifesto, soprattutto Ursula Hirschmann Spinelli e la partigiana Ada Rossi, moglie del socialista antifascista Ernesto. L’essere confinate non per loro volontà ha rappresentato per molte donne antifasciste una dura prova che hanno superato grazie alla forza delle convinzioni politiche e al bisogno di libertà. Ada Rossi, insegnante, partigiana e convinta europeista, ha studiato nel Collegio Villa della Regina a Torino e poi all’università di Pavia; si laurea in matematica, un corso di studi molto poco frequentato da giovani universitarie, una antesignana delle odierne Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics); insegna poi in un Istituto Tecnico di Bergamo, il “Vittorio Emanuele”, dove conosce Ernesto Rossi, insegnante, attivista politico antifascista, che sposa nel 1931 quando lui si trova già in carcere; per il suo dichiarato antifascismo viene allontanata dalla scuola pubblica ed è costretta a impartire lezioni private per mantenersi. Continua a svolgere funzioni di propaganda, collegamento e formazione politica fra i giovani poi divenuti protagonisti della resistenza bergamasca. Nel novembre del 1939, per effetto di un’amnistia, Ernesto Rossi viene scarcerato e inviato nell’isola di Ventotene. Ada, come sottolinea Marcella Filippa, partecipa poi anche alla nascita del Movimento Federalista Europeo (Milano 1943) e contribuisce col marito alla propaganda internazionale negli anni dell’esilio svizzero del consorte (1943-1945). Conserva per tutta la sua lunga vita (muore nel 1993 a quasi novantaquattro anni), un’incrollabile fede che il mondo potesse essere migliorato dalla volontà e dall’impegno comune delle persone. Pensava che l’Europa potesse diventare un baluardo contro gli egoismi nazionali, le guerre e i totalitarismi. Ed è lei, insieme alla allora moglie di Colorni, Ursula Hirschmann, a portare clandestinamente il testo fuori dall’isola; quest’ultima lo fa battere a macchina a Bergamo e insieme lo diffondono tra gli antifascisti sul continente. Non tutti riportano la stessa versione sulle modalità con cui Ursula porta fuori dall’isola il Manifesto: secondo quanto riportato da Altiero Spinelli nelle sue memorie, copiato su leggerissime carte di sigaretta e cucito nei risvolti della pelliccia, per altri nascosto nell’orlo della gonna, o nascosto in un pollo.
Ursula Hirschmann consigliera politica
Ursula Hirschmann, cosmopolita per destino e per scelta, nasce a Berlino il 2 settembre 1913 in una famiglia ebrea non praticante. Il padre Carl è medico chirurgo, originario della Prussia occidentale; ricorda della sua crescita affettiva e culturale la possibilità di costruire “un mondo senza umiliazione, fondato sulla libertà e sulla ragione” una scoperta che le procura una felicità indistruttibile, “rendendomi armata contro i legami dell’irrazionale, della Unvermunft, di cui l’antisemitismo non era che una delle innumerevoli pietose espressioni”[2]. Ursula quindi, ha una precoce consapevolezza della necessità di un impegno politico e giovanissima si impegna attivamente insieme al fratello nel cosiddetto Fronte di Ferro, l’alleanza fra la SPD e i gruppi socialisti e democratici; fin da subito appare chiaro a Ursula che i nazionalsocialisti avanzano perché i partiti della sinistra sono divisi e combattendosi fra loro lasciano campo libero alle frequenti aggressioni fasciste nei quartieri operai, soprattutto negli ultimi mesi del 1932 e i primi del 1933. All’avvento del nazismo, Ursula lascia la capitale tedesca alla volta di Parigi, nell’esperienza dell’esilio politico condivisa con tanti altri esuli come lei. Ursula conosce il primo marito Eugenio Colorni quando è impegnata nello studio di Hegel nella Staatsbibliothek e il filosofo approfondisce Leibniz; è allora lettore d’italiano presso il professor Erich Auerbach a Marburgo e va saltuariamente a Berlino per concludere gli studi su Leibniz, iniziati a Milano sotto la guida di Piero Martinetti, che con altri colleghi non avevano prestato il giuramento al fascismo, imposto dal regio decreto n.1127, apparso sulla Gazzetta Ufficiale del 28 agosto del 1931.
Più tardi si rivedono a Parigi e successivamente Ursula lo raggiunge a Trieste, nei primi mesi del 1935, dove insegna all’Istituto Magistrale Femminile Carducci, perché per insegnare nelle scuole medie occorre il giuramento. Eugenio interrompe il precedente legame e il rapporto sfocia nel matrimonio. All’inserimento nella quotidianità di Trieste Ursula dedica nella sua autobiografia varie riflessioni, fra cui osservazioni sulla condizione femminile. Dalla loro unione nasceranno tre figlie, la prima nel ’37, Silvia, poi Renata ed Eva. Colorni intanto è diventato attivo nel Centro interno socialista, e dirigente a partire dal ’37, mantenendo ferma la convinzione di una necessaria azione rivoluzionaria legata alla lotta di classe. Fa necessariamente frequenti viaggi a Parigi dove incontra i fuorusciti e finisce nel ’38 nelle mani dell’Ovra che da anni nutre sospetti su di lui. Eugenio, che si era recato alla Questura di Trieste per il passaporto necessario a recarsi in Francia prima di trasferirsi con la famiglia a Milano, viene fermato dalla polizia; il suo appartamento viene perquisito alla presenza della moglie Ursula, che fortunatamente ha avuto il tempo di bruciare il materiale più compromettente gettando in un burrone la macchina da scrivere necessaria alla corrispondenza politica[3]. Dopo quattro mesi di carcere, mentre per Ursula non troveranno prove concrete di attività antifasciste e non viene inquisita, a Eugenio viene comminata una pena di cinque anni di confino da scontare nell’isola di Ventotene e poi a Melfi nel 1941; alla moglie Ursula, priva di riferimenti familiari, con una bambina piccola, non viene rifiutato il permesso di seguire il marito nell’isola. Ursula lo segue dunque a Ventotene, che lascia solo per brevi periodi per partorire, o per sostenere esami alla Facoltà di Filologia moderna dell’Università di Venezia, dove si laurea con il punteggio di 110 e lode il 30 ottobre 1939[4]. Nel tempo trascorso sull’isola Ursula partecipa attivamente al dibattito e alla stesura con Altiero Spinelli, Eugenio Colorni, Ernesto Rossi del Manifesto di Ventotene anche risulta impossibile stabilire in modo preciso l’apporto di Ursula al Manifesto; è certo però che la pratica della militanza politica, l’abbandono delle idee esclusivamente comuniste, l’essere una apolide che non conosce frontiere, l’incontro traumatico con un nazionalismo esasperato come quello tedesco e la sua proliferazione in Italia, sono alla base della sua adesione alla causa federalista. Ursula si stabilisce definitivamente nell’isola nel luglio del ’39, e lì i coniugi concepiscono le altre due figlie, Renata, che nasce nel novembre del ’39, ed Eva nel 1941, ma il matrimonio è destinato a finire. Le lettere tra Colorni e la moglie testimoniano uno scambio intellettuale intenso tra di loro, accompagnato poi da crisi e difficoltà, che vedrà poi come epilogo la nascita di un rapporto a Ventotene con Altiero Spinelli. Eugenio Colorni morirà a Roma per mano della banda Koch nel maggio 1944 a pochi giorni dalla liberazione della città; dalla profonda, intensa e duratura storia con Spinelli, nasceranno altre tre figlie, Diana, Barbara e Sara. Ursula avrà presto la consapevolezza di essere una déracinée, come si definiva, una donna senza patria, che ha cambiato più frontiere che di scarpe, e parafrasando Bertold Brecht, non ha nulla da perdere se non le proprie catene; pertanto, l’Europa non può che essere la propria casa e il proprio progetto”[5].
Il 1943 è un anno decisivo per i confinati di Ventotene e le famiglie; Colorni che era a Melfi, approfittando di un permesso a Roma per una visita, si rende irreperibile, mentre, con la caduta del fascismo, Ernesto Rossi e poi Altiero Spinelli tornano in libertà. Colorni e Rossi convocano a Milano nella casa di Mario Alberto Rollier la riunione di fondazione del movimento federalista, logica conseguenza del Manifesto. L’impegno di Ursula, a fianco di Spinelli, prosegue con viaggi in Svizzera e contatti con i rifugiati europei. Poco dopo nasce la prima delle figlie che Spinelli avrà da Ursula, Diana, nel ’46 nasce la seconda, Barbara; Ursula riacquista presto un ruolo preminente con l’organizzazione della Conferenza di Parigi sul progetto di federazione, mettendo a frutto la conoscenza degli ambienti culturali francesi. Il rientro in Italia dei coniugi Hirschmann Spinelli non facilita però la diffusione del messaggio federalista: gli Stati Uniti da una parte e l’Unione Sovietica dall’altra pongono ai paesi liberati altre scelte che non sono quelle dell’unione politica europea. La ripresa delle attività negli anni Cinquanta vede comunque Ursula assiduamente presente nell’elaborazione politica di Spinelli.
I primi anni Settanta segnano anche l’incontro di Ursula Hirschmann con il femminismo e il movimento da lei ideato, Femmes pour l’Europe, che non va confuso quindi con Femmes d’Europe, legato alla figura di Fausta Deshormes La valle. Il gruppo d’iniziativa di Ursula nasce dopo che si è trasferita a Bruxelles nel 1970 con il marito Altiero, nominato Commissario delle Comunità europee. Si trova quindi a continuare e progettare da sola l’impegno europeista; venuta a conoscenza del Mouvement de Libération de la Femme, pensa di poterlo incanalare anche verso il progetto federalista, ma sottovaluta la diffidenza dei movimenti femministi verso le istituzioni. La prima riunione è del 1974, ma il contrasto è profondo: l’approccio del femminismo è per Ursula ginocentrico, cioè esse si chiedevano cosa l’Europa potesse dare alle donne, mentre dovevano agire a sostegno dell’Europa. Con l’Appel aux femmes d’Europe si costituisce ufficialmente a Bruxelles nell’aprile del ’75 il gruppo d’iniziativa Femmes pour l’Europe. Il convegno ufficiale si tiene a novembre 1975, intrecciando i temi con la prima delle Conferenze mondiali volute dall’Onu sulla condizione femminile, a Città del Messico. Viene anche chiarita nell’occasione la posizione rispetto alla sinistra europea. Per Ursula Hirschmann e Jacqueline de Groote le sinistre, comunista e socialista, si erano tenute lontano dalla costruzione europea per motivi diversi. I tentativi di diventare interlocutrici stabili della Comunità s’interrompono per la malattia che colpisce Ursula, il vero motore del Gruppo. Ursula Hirschmann muore a Roma l’8 gennaio 1991 ed è seppellita nel cimitero acattolico della capitale. Ho avuto il piacere di parlare di lei proprio nella piazza dell’isola di Ventotene, in occasione della Notte europea dei ricercatori, settembre 2021, nel quadro delle manifestazioni organizzate dall’Università di Cassino e Lazio Meridionale, riportando a casa sensazioni indimenticabili. Sarebbe utile per i e le giovani approfondire queste biografie e queste tematiche per nutrirsi di antidoti contro le teorie degli stati neofascisti e sovranisti che pure fanno parte dell’Europa, ma non sembra abbiano capito il senso profondo del federalismo e di una Europa del futuro, fatta di cittadini/e liberi da pregiudizi razziali, di sesso, e di orientamento sessuale.
[1] Si veda Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Mulino, Bologna 1999.
[2]Ursula Hirschmann, Noi senza patria, Il Mulino, Bologna 1993, p. 72.
[3] Silvana Boccanfuso, Ursula Hirschmann una donna per l’Europa, Ultima Spiaggia, Genova-Ventotene 2019, p.89.
[4] La sua autobiografia s’interrompe a causa dell’emorragia cerebrale che la colpisce ai primi di dicembre del 1975, seguita da afasia, che le impedisce di completare le pagine che ha iniziato a scrivere dal 1963. L’ emorragia cerebrale la lascerà per molto tempo priva dell’uso della voce, che con impegno e inaudito sforzo, riacquisterà parzialmente negli anni a venire, anche grazie all’aiuto e al sostegno della figlia Renata, all’amore di Spinelli, e alla musica fonte di guarigione.
[5] Marcella Filippa, www. Ursula Hirschmann Spinelli, enciclopedia delle donne.it