Patriarcato e dintorni, proviamo a fare chiarezza
Dopo decenni in cui argomenti di natura storico-sociologica come “Patriarcato” sono rimasti confinati negli scritti specialistici, adesso l’argomento esplode sui Media mainstream.
Come si sa, tutto è partito dalle note affermazioni di Elena Cecchettin, attorno alle quali si è prodotta una valanga di “argomentazioni”, a volte confuse, spesso avulse dalla problematica relativa alle analisi di genere. È stato detto che il patriarcato non esiste più da tempo, affermazione del tutto ovvia se ci si riferisce alla famiglia patriarcale, intesa come struttura sociale ormai sostituita dalla famiglia nucleare; altra cosa, invece, sono i valori/disvalori che sono stati parte integrante di tale struttura sociale: secolari, dunque non facilmente cancellabili. E anche endemici, perché circolano in modo carsico, e non sempre facilmente decodificabili perché normalizzati dalla consuetudine.
È dunque lì che bisogna individuare le dinamiche di certa persistente mentalità maschile che, in tante situazioni, non è venuta meno nonostante l’emancipazione femminile, anzi risulta in recrudescenza proprio a causa della chiara difficoltà di alcuni uomini di rapportarsi con “foeminae novae”. L’oceanico corteo romano di questi giorni ne è chiara testimonianza.
In tempi molto lontani, la subordinazione femminile al maschile era innanzitutto causata da fatti “naturali”, come le continue gravidanze non ostacolate da pratiche contraccettive, e da fatti economici, visto che i mezzi di sussistenza provenivano dagli uomini. Da tale forma di dipendenza è scaturita la reificazione delle donne e la limitata considerazione della figura femminile a livello sociale e non solo. Tale consecutio risultava “obbligata” da fattori di primitività antropologica che nei secoli hanno trasformato “il fatto in dato” (Marx, Il Capitale). Questo “dato” ha …dato vita alla misoginia, consolidata acriticamente (e comodamente) da tutta la cultura tradizionale, dominata dal maschile. Ecco quindi che la segregazione femminile è stata sacramentata come valore etico supremo.
Sulla questione, ricordo qui alcune affermazioni della “tradizione”.
Fronte laico:
Esiodo: “la virtù della donna finisce sull’uscio di casa”. Ergo: se la donna esce di casa è “pubblica”, con ciò che ne segue.
Rousseau: «La donna è fatta per sottomettersi all’uomo e sopportare le ingiustizie». Ergo: Olympe de Gouges poteva essere ghigliottinata perché aveva “dimenticato le virtù che convenivano al suo sesso”: stare a casa, e stare zitta. Come si sa, la personalità della De Gouges fu studiata da un medico il quale concluse che l’interesse per la politica della donna derivava da una “patologica carenza di femminilità”.
Schiller: «Il dovere della donna sulla faccia della terra è l’obbedienza».
A rinforzo di tali teorie, così il Fronte clericale:
San Paolo: “La donna deve portare sul capo il segno della sua dipendenza. Le donne tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti»
Beato Cherubino da Spoleto: «La cosa ch’è tenuto lo marito dare alla moglie, si chiama correzione, reprensione, castigamento; occorre punizione, percussione, o vero battitura e flagellamento: la donna è fragile e difettosa”.
E allora siamo sicuri che certe fonti del (mal)pensare, oltre ad avere condizionato le menti delle persone comuni, non hanno influenzato anche la tradizione giuridica occidentale? Le leggi sono prodotti storici, e, in quanto tali, esprimono la mentalità dominante, in questo caso, quella patriarcale. Tale mentalità ha fatto della donna una sorta di minus habens, sottoposta in tutto e per tutto all’autorità dell’uomo, del pater familias.
Osserviamo che
- fino al 1919 le donne erano prive di diritti civili, non potevano ereditare (la dote veniva gestita dal marito), né potevano deporre in Tribunale (in compenso potevano subire condanne);
- fino al 1946 le donne non avevano accesso al voto;
- fino al 1956 le donne subivano lo ius corrigendi (art. 571 c.p.), che consentiva al pater familias di usare la violenza fisica nei riguardi dei figli e anche nei riguardi della moglie (in barba al fatto che l’art. 29 della nostra Costituzione proclami la “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”);
- fino al 1969 le mogli subivano punizioni se adultere (art. 559 del c.p.). Ciò non accadeva ai mariti che praticavano identico comportamento.
- fino al 1975 (anno della Riforma del diritto di famiglia, che ha cancellato la figura del pater familias) i rapporti moglie/ marito erano resi fortemente dispari dalla marcata dipendenza della moglie, priva della minima autorevolezza e men che mai di autorità nei riguardi dei figli;
- fino al 1981 esisteva il “delitto d’onore” (art. 587 c.p.), insieme al “matrimonio riparatore” (art. 544 c.p.) che reificava le donne fino all’annullamento fisico.
Per non parlare dei venti anni-venti che ci son voluti per licenziare la legge contro la violenza antifemminile.
E visto che siamo in zona “sessualità”, quella più patita dalle donne, ricordiamo, sul piano del linguaggio, che è elemento rivelatore della mentalità, il persistere di certe disimmetrie semantiche riferite a termini che assumono significati diversi a seconda che riguardino un uomo o una donna, ad esempio, Pubblico –uomo pubblico/donna pubblica, Libero – uomo libero/donna libera…. Sono le più plateali.
E come non ricordare, anche, l’espressione Collegi a due piazze usata da un (pure!)autorevole uomo delle Istituzioni, italiano, per definire l’alternanza uomo/donna nelle liste elettorali …?
Anche questa è violenza: non considerare le donne persone ma oggetti sessuali, di cui eventualmente poter disporre. Del resto, per tornare al citato “fronte clericale”, così sosteneva San Giovanni Crisostomo: “Le donne servono soprattutto a soddisfare la libidine degli uomini.” SIC !
Ancora nell’ambito del Diritto, che dire del ritardo relativo all’ingresso delle donne in Magistratura, che fu concesso con legge ad hoc del 1963, ben quindici anni dopo l’entrata in vigore della nostra Costituzione che esalta l’uguaglianza dei cittadini? In merito, ecco qualche dato di cronaca:
1947 – Durante l’Assemblea Costituente si discuteva della possibilità di aprire alle donne l’ingresso in Magistratura; così affermò l’on. Antonio Romano, Presidente di Tribunale: «Con tutto il rispetto per la capacità intellettiva della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare. Questa, richiede grande equilibrio, e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Questa è la mia opinione, le donne devono stare a casa».
1957 – Così scrisse, in un libretto dal titolo “La donna giudice, ovverossia la grazia contro la giustizia”, il presidente onorario della Corte di Cassazione, Eutimio Ranelletti: «… la donna è fatua, leggera, superficiale, approssimativa, negata alla logica e quindi inadatta a valutare obiettivamente e saggiamente i delitti e i delinquenti».
2021, novembre – Durante una lezione online agli studenti del primo anno del corso di laurea in Medicina presso l’Università di Bari, un cultore di Bioetica, ha affermato che «Giudici donne non dovrebbero esserci perché giudicare significa essere imparziali». Secondo il de quo le donne sarebbero geneticamente incapaci di imparzialità.
Ancora, sulla recrudescenza della cultura patriarcale:
Mario Adinolfi: “la donna sottomessa è fondamento della famiglia” (teoria promossa dal regime fascista, che vide nella procreazione il principale dovere della donna);
Camillo Langone: “è meglio che le donne crescano figli, invece di studiare. Il vero fattore fertilizzante è la bassa scolarizzazione: se vogliamo riaprire qualche reparto maternità bisognerà risolversi a chiudere qualche facoltà.“
Sembra evidente la tendenza a ricacciare le donne nel limbo domestico, privandole di autonomia economica, e dunque subordinandole ancora una volta al maschile, in assoluta dissonanza con l’art 1 della Dichiarazione Onu 1993, che considera violenza contro le donne ogni atto che si configuri come coercizione o privazione della libertà.
È questo il contesto con cui bisogna fare i conti. E non basta affermare che la famiglia patriarcale non esiste più, per dedurre l’inesistenza della mentalità patriarcale. Tale mentalità, per quanto sfilacciata dai tempi e dalle lotte delle donne, è ancora presente, e rimane zoccolo duro nella mente di molti.