Nel 2009, con due figlie di uno e quattro anni, mi barcamenavo tra il lavoro e le lezioni che tenevo all’Università nel corso di Storia delle donne e dell’identità di genere. Avevo anche scelto il part-time per conciliare meglio tutto, e mi colpì molto l’uscita del libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino, L’Italia fatta in casa, edito da Mondadori.

Decisi di parlarne in aula con gli studenti, e ricordo anche il divertimento delle mie figlie a osservare la copertina del libro, che rappresentava con colori in contrasto scene serali di vita quotidiana delle famiglie italiane: obiettivo dello studio era infatti indagare, dati alla mano, la ricchezza prodotta in Italia attraverso il lavoro svolto dalle famiglie tra le mura domestiche, e mai copertina fu più indicata perché in effetti quel lavoro non retribuito veniva e viene svolto soprattutto nelle ore serali, dopo il lavoro, e soprattutto dalle donne, con conseguenze – veniva osservato allora – sui rapporti di genere, sulla creazione di capitale sociale, sul mercato del lavoro, sul sistema educativo e sulla struttura stessa del Welfare State nazionale.

A distanza di tanti anni mi è venuto in mente quel libro pensando a Dopo il lavoro. Una storia della casa e della lotta per il tempo libero, edito in Italia da Tlon e scritto da Helen Hester e Nick Srnicek. Per Hester, docente e fondatrice del collettivo femminista internazionale “Laboria Cuboniks”, e Srnicek, docente e politologo, è ancora una volta la casa  l’osservatorio privilegiato per indagare l’erosione del tempo libero delle famiglie causata dal lavoro domestico non retribuito, concentrato soprattutto nelle attività di cura che ancora fanno capo alle donne. Gli autori osservano, tabelle alla mano, che nella maggior parte dei Paesi occidentali si dedica dal 45 al 55% del proprio tempo di lavoro totale al lavoro riproduttivo non retribuito e che, nel complesso, la riproduzione sociale occupa una parte considerevole e in rapida crescita delle nostre economie.

 «Ignorare questo lavoro – scrivono – significa ignorare una parte significativa del lavoro concreto che le società capitaliste avanzate stanno svolgendo.» In un contesto, quindi, nel quale il futuro del lavoro non riguarda più soltanto la programmazione informatica ma il prendersi cura – più high-touch che high-thech ci suggeriscono – come sviluppare una prospettiva postlavorista sul lavoro riproduttivo?

Questa è a sfida teorica lanciata da Hester e Srnicek, che fanno riferimento alla categoria del postlavoro in base alla quale il lavoro, inteso come lavoro salariato, è doppiamente non libero, vanno quindi proposte visioni del mondo alternative che mirano ad abolire questa forma sociale. La proposta del libro vede quindi nel ricorso al progetto postlavorista, opportunamente modificato, la possibilità di fornire un contributo significativo per poter organizzare al meglio il lavoro riproduttivo. Gli autori intendono sviluppare un approccio alla riproduzione sociale che «valorizzi la libertà per tutti/e che riconosca il lavoro riproduttivo come lavoro, che riduca questo lavoro il più possibile e che ridistribuisca qualsiasi lavoro residuo in modo equo.» Trattandosi inoltre di un progetto universale di riduzione del carico lavorativo, ciò richiede che gli obblighi del lavoro, i suoi dolori e i suoi piaceri, siano condivisi. in modo equo e non siano sopportati in modo sproporzionato da un unico gruppo di persone.

Per farlo vengono indicati una serie di step fondamentali: il ripensamento della promessa storica della tecnologia di ridurre gli oneri del lavoro riproduttivo sociale; un’analisi degli alti standard igienici oggi esistenti, che hanno di fatto vanificato il tentativo della tecnologia di ridurre il lavoro domestico (più voglio avere una casa perfetta, più non mi basterà l’aiuto degli strumenti tecnologici a mia disposizione); la ridefinizione delle relazioni sociali della famiglia, in particolare, della famiglia nucleare come mezzo per gestire la riproduzione sociale nel contesto capitalistico. «La famiglia – suggeriscono gli autori-  non è una formazione naturale o immutabile, ma è in parte una risposta adattativa al sistema economico in cui è situata. Lavoro e famiglia sono fondamentalmente collegati, e i tentativi di resistere a uno devono inevitabilmente fare i conti con l’altro.» Infine la casa, la vera protagonista di questo lavoro, il contenitore delle tecnologie domestiche, luogo nel quale sperimentare una diversa organizzazione spaziale del lavoro domestico e nel quale estendere le tesi sul postlavoro anche alla riproduzione sociale, elaborando un modello di lotta per il tempo libero che vada oltre i tipi di lavoro salariato tradizionalmente oggetto di questo tipo di richieste.

«La lotta contro il lavoro – ci spiegano infine Hester e Srnicek –  in tutte le sue forme, è la lotta per il tempo libero. È solo sulla base di questo tempo libero che ci è consentito determinare cosa fare delle nostre vite finite, impegnarci in percorsi di vita, progetti, identità e norme. Questo non riguarda semplicemente avere più tempo per la famiglia né per il lavoro salariato, né qualche idea mitica di un equilibrio tra lavoro e vita. La lotta per il tempo libero è, in definitiva, una questione di apertura del campo della libertà stessa, e di massimizzazione dell’estensione dell’attività scelta in autonomia.»

Che siano maturi i tempi per ripensare, con nuove categorie, quella vera ricchezza che già nel 2009 Alesina e Ichino ci avevano indicato?