Oggi le donne sono cittadine consapevoli, hanno eguaglianza giuridica e tutti gli stessi diritti degli uomini. Possono accedere a tutte le professioni e a tutti gli uffici. Non è sempre stato così però. Il concetto di ‘diritti di cittadinanza’, coniato dal sociologo inglese Thomas Marshall considera quell’insieme di diritti civili, politici e sociali che spettano agli individui in quanto cittadini di un certo paese. L’evoluzione normativa che ha permesso l’affermarsi di tali diritti è proceduta nel nostro Paese in modo lento con battute di arresto, e spinte, arretramenti e avanzamenti. Diritto di voto, accesso all’istruzione, libertà dall’ingerenza maschile: la strada verso la parità dei diritti è stata, ed è ancora, molto lunga per le donne in Italia. Le donne per migliorare la propria posizione o il proprio status hanno bisogno di liberarsi dai limiti imposti dai ruoli definiti socialmente, migliorando le condizioni, modificando gli atteggiamenti. Quali sono le risposte ai bisogni strategici di genere: l’aumento della partecipazione delle donne ai processi decisionali, la creazione di pari opportunità per l’occupazione (parità di retribuzione a parità di lavoro) e il miglioramento dei sistemi sociali.

Tra XIX e XX secolo le donne cominciano a riunirsi in associazioni chiedendo il cambiamento della condizione della donna all’interno della famiglia; i diritti civili, come quello all’istruzione e alle libere professioni; infine, il diritto politico per eccellenza il “suffragio femminile”. Le associazioni femminili si impegnarono per il raggiungimento dei diritti civili e politici.

La prima categoria di donne a organizzarsi fu quella delle maestre: esponenti dell’emergente ceto medio, dotate di buona cultura e di una relativa autonomia di movimento, queste donne ambivano alla parità salariale e a un maggiore riconoscimento sociale. Molte di loro furono tra le fondatrici di associazioni quali l’Unione femminile (nata a Milano nel 1899 e poi diffusa in altre città italiane, l’Associazione magistrale femminile di Milano e la Federazione romana delle opere di attività femminile, istituita nel 1900. Anche impiegate, contabili, telegrafiste e telefoniste chiedevano tutela degli interessi femminili. Nel 1903 si costituiva ufficialmente a Roma il Consiglio Nazionale delle Donne Italiane (CNDI), composto da tre federazioni: romana (la prima a costituirsi in ordine di tempo), lombarda e piemontese. La sua nascita era collegata al bisogno del Consiglio Internazionale delle donne di estendersi anche in Europa, condividendo il testo canonico della lotta delle donne per il diritto di cittadinanza e i per diritti civili, stilato da quattro signore in America che avevano elaborato i punti della Dichiarazione dei sentimenti. Alcuni sono:

  • Impossibilità di esercitare il diritto inalienabile al voto elettivo.
  • Accettare leggi sulla cui formulazione non aveva voce in capitolo.
  • Le sono negati i diritti concessi agli uomini più ignoranti e degradati.
  • Impossibilità di accedere agli impieghi redditizi e, da quelli che le è permesso di svolgere, ricevere un compenso esiguo.
  • Distruggere la fiducia nelle proprie forze, di diminuire il rispetto di sé e di renderla disposta a condurre una vita dipendente e abietta.

Durante le guerre mondiali del XX secolo, le donne, avevano assunto un ruolo preponderante nel nucleo familiare rimasto, e hanno mosso i primi passi verso la propria emancipazione. 

Nei 75 anni di storia repubblicana, le donne hanno sempre ricoperto un ruolo che, anche se minoritario, è stato determinante nelle riforme che miravano alla parità di genere, all’abbattimento delle barriere della discriminazione.

Fin dall’approvazione dell’articolo 3 della Costituzione, che mette l’uguaglianza tra i sessi tra i valori fondanti della Repubblica, le donne (in quel caso le 21 deputate dell’Assemblea costituente) si sono impegnate per le riforme che hanno portato a traguardi inaspettati.

Un cammino lungo e difficile, alla luce anche dei recenti tentativi messi in atto in diversi angoli del pianeta di rimettere in discussione diritti dati per acquisiti come quello allo studio, all’autodeterminazione, alla maternità consapevole.

Hanno qualche riconoscimento nel secondo dopoguerra. Il 2 giugno 1946 le donne ottengono il diritto al voto, e il 1 gennaio1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, alcuni principi fondamentali riguardanti la parità di diritti tra uomo e donna, vengono finalmente sanciti.

La prima legge in favore delle donne è del 1950, riguardante la “tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”: divieto di licenziamento dall’inizio della gravidanza al compimento del primo anno di vita del figlio, divieto di adibire donne incinte a lavori pesanti, divieto di adibire al lavoro donne negli ultimi tre mesi di gravidanza. Tutele in larga parte ancor oggi valide.

Una legge che rappresenta un gran passo in avanti per le lavoratrici, sempre nel 1963 si riconosce il valore sociale delle casalinghe, istituendo un fondo volontario per la pensione delle donne che si dedicano all’accudimento della famiglia. Nel 1999 questo lavoro di cura viene ulteriormente riconosciuto istituendo l’assicurazione obbligatoria Inail per tutti coloro (uomini o donne finalmente trattati alla pari) che svolgono in modo esclusivo il lavoro domestico per la propria famiglia.

La Legge n. 903 del 9 dicembre 1977, stabilisce la parità di trattamento tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Inizia per le donne l’indipendenza economica, giuridica, civile. 

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”: ma dall’entrata in vigore della costituzione che sancisce questo valore fondamentale (assieme al citato art.3 sull’uguaglianza tra i sessi e all’art. 37 che sancisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”) il pieno rispetto delle norme ancora non si è raggiunto. Ancor oggi il “gap” nelle retribuzioni tra uomo e donna, a parità di mansioni, è in media del 15% in meno, con il divario che si allarga all’aumentare delle responsabilità, arrivando, per alcune cariche apicali, anche al 30%.

È solo alla fine degli anni ’80 che cambia la percezione di famiglia, con la donna sempre più in una posizione autonoma, socialmente ed economicamente. In un quadro culturale che sta cambiando, muta anche il concetto di genitorialità: non è più solo alla donna che si chiede di accudire i figli e la famiglia, assegnando ai genitori ruoli sempre più paritari, fino al cosiddetto Jobs Act, che sancisce definitivamente il riconoscimento del congedo di paternità e l’estensione del congedo parentale fino al dodicesimo anno di vita dei figli.

Per quasi un decennio dalla nascita della Repubblica è persistito il divieto, per le donne, di accesso ad alcune carriere lavorative, ritenute prettamente maschili. È solo dal 1956 che alle donne è consentito diventare magistrate perché si riteneva che per la loro sensibilità non fossero adatte o addirittura fossero geneticamente meno intelligenti degli uomini. L’accesso alla carriera in magistratura aprirà le porte anche ad altre attività e cariche pubbliche: nel 1963 cade il divieto per tutti gli incarichi pubblici e politici, nel 1981 quello di entrata nel corpo della Polizia di Stato, abolendo il Corpo di polizia femminile. Dal 1999 le donne possono essere reclutate nelle Forze armate e nella Guardia di Finanza.

Ad accentuare le differenze di genere è arrivato anche il Covid-19, che ha evidenziato una evidente disparità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici. Nella riduzione degli occupati legata alle misure di contenimento della pandemia, le donne sono coloro che hanno pagato il prezzo più alto. A fronte di una ripresa lenta ma decisa, l’occupazione femminile continua a rimanere al palo, non avendo ancora recuperato sui livelli pre-pandemia del 2019, rimanendo sotto la soglia del 50% di donne occupate nel Paese (49.4%).

Il cammino della parità non può dirsi ancora concluso, nonostante i tanti e grandi passi compiuti in questi ultimi 75 anni di storia repubblicana. Una corposa opportunità di progresso viene offerta oggi dall’attuazione del PNRR, dove la parità di genere rappresenta uno dei tre temi prioritari di inclusione sociale, assieme a Giovani e Mezzogiorno.

Nella promozione dell’abbattimento delle barriere di genere figurano progetti per il finanziamento di azioni volte a promuovere una maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro attraverso il sostegno a nuova occupazione e imprenditorialità, oltre al potenziamento dei servizi educativi primari e dei servizi sociali, per garantire maggiore equilibrio tra i generi, tra lavoratrici e lavoratori, potenziando il welfare in virtù di un sempre crescente diritto alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

L’obiettivo è quello di raggiungere un incremento di almeno cinque punti nella classifica dell’indice di uguaglianza di genere dei Paesi europei redatto nel 2022 dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere. Nella media europea l’Italia ha un indice pari a 65; al primo posto la Svezia con 83,9 e all’ultimo la Grecia con 53,4.

Le donne hanno indubbie doti di leadership, grazie anche a una serie di capacità, le cosiddette soft skills, che provengono da caratteristiche neurologiche legate al funzionamento del cervello femminile che facilita le interconnessioni tra le due diverse sfere del cervello. Lo dicono grandi esperti.

Oggi le soft skills sono sempre più richieste a livello professionale perché corrispondono alla nuova realtà del mondo del lavoro. Dalle ricerche è emerso che le donne ne hanno in abbondanza, ma faticano a valorizzarle.

Le donne, naturali depositarie di un questo patrimonio valorialefaticano a metterlo in risalto e a utilizzarle nel mondo del lavoro. Sembra quasi che le donne abbiano timore di mostrare le loro competenze. La maggior parte punta a raggiungere livelli di competenza tecnica sempre maggiori, e ad accumulare esperienze specifiche per poter mostrare di essere “all’altezza”.

Naturalmente il discorso affonda le radici in problematiche più profonde, come la spesso debole autostima femminile e la percezione diffusa a tutti i livelli delle società che le donne debbano mostrare più degli uomini quanto valgono.

Le soft skills sono le competenze comportamentali, attitudinali, quali la capacità di lavorare in squadra e di gestire lo stress, il multitasking, il pensiero critico, l’empatia, l’intuizione, l’inclusione, la flessibilità, l’intelligenza emotiva. Riguardano il nostro modo di interagire con gli altri, di affrontare e risolvere difficoltà, di gestire la complessità e l’incertezza che ci circondano.

Le soft skills sono un modo di vedere il mondo, di approcciarsi agli altri. Il lavoro di squadra, la capacità di svolgere più lavori allo stesso tempo, l’empatia, cioè saper capire l’altra persona.

Seguendo le indicazioni dell’Unione Europea, tra i cui obiettivi dell’Agenda ONU 2030, vi è il raggiungimento dell’uguaglianza di genere e dell’emancipazione di tutte le donne e le ragazze, l’Italia si è posta l’obiettivo, insieme all’Europa tutta, di valorizzare ogni individuo nella sua diversità, entro il 2025, prestando particolare attenzione alla libertà, all’uguaglianza e alle pari opportunità di realizzazione personale. 

Ben venga quindi l’empowerment femminile: si intende il potenziamento di sé e della propria capacità di autodeterminazione, rafforzare l’autostima, le proprie competenze e la fiducia in sé stesse, superando visioni stereotipate riguardanti il proprio ruolo nella società, nel mondo del lavoro e nei percorsi di crescita professionale.

È un processo attraverso cui le donne acquisiscono maggior potere e controllo sulla propria vita.