Il ricamo come forma di resistenza
Fra gli infiniti modi di resistere mi viene in mente il ricamo come momento privilegiato di resistenza attiva. Attraverso piccoli punti a croce che riproducono disegni antichi da corredi nuziali, abiti da sposa o che si ispirano alla natura, alla terra ed ai prodotti della Palestina, la donna palestinese contribuisce alla conservazione di una identità minacciata da decenni di occupazione devastante. “Poiché gli Israeliani ci vogliono cacciare dalla nostra terra – ci ha detto il sociologo Nassar Ibrahim dell’Alternative Information Center – noi palestinesi resistiamo solo vivendo qui, mantenendo gli ospedali, le scuole, danzando, facendo musica, facendo sesso…”
{{Fra gli infiniti modi di resistere}} mi viene in mente il ricamo come momento privilegiato di resistenza attiva. Attraverso piccoli punti a croce che riproducono disegni antichi da corredi nuziali, abiti da sposa o che si ispirano alla natura, alla terra ed ai prodotti della Palestina, integrando talvolta anche elementi dell’arte bizantina e crociata, la donna palestinese contribuisce al recupero dell’eredità culturale del suo popolo ed alla conservazione di una identità minacciata da decenni di occupazione devastante.
E’ così che {{le donne ricamatrici che abbiamo potuto incontrare a Jenin, a Twani}} e nei due centri di Ramallah, attraverso la lavorazione del filo e l’armonizzazione dei colori, cercano di mantenere vive le loro tradizioni contribuendo, nello stesso tempo, al sostentamento della famiglia nella quale riescono a ritagliarsi un ruolo autonomo, così come nella società, con la loro produzione, i loro guadagni e le relazioni che intrecciano.
A Jenin, toccante è stata l’accoglienza riservataci da {{Um Imad}}, madre del giovane Imad Abu Zahra – ucciso da un soldato israeliano mentre compiva il suo dovere di giornalista. – e da alcune delle sue collaboratrici. _ Attorno ad una tavola ricoperta di cibi semplici e squisiti come da tradizione, Um Imad ci ha presentato la {{Women Cultural Society}}, come realizzazione del sogno di suo figlio martire, che in vita non cessava di raccomandarle di mettere a servizio delle giovani donne di Jenin l’arte delle sue mani, a salvaguardia e protezione dell’eredità popolare palestinese.
L’associazione, fondata nel 2004, ha scelto come sede, nella città vecchia di Jenin, una casa semidistrutta che la stessa associazione si è presa cura di restaurare e pagarne l’affitto, oggi di 130 JD (Dinari giordani) mensili, circa 150 euro, oltre alle bollette di luce, acqua e telefono.
Tra una portata e l’altra e l’assaggio di dolci tipici di loro produzione, Um Imad ci parla delle attività dei {{membri dell’associazione, oggi in numero di 140}}, ognuna con le proprie esperienze e competenze da condividere con le altre, tutte orientate verso un comune obiettivo: il recupero dell’eredità culturale palestinese.
Obiettivo che viene realizzato attraverso lo studio e la divulgazione anche mediante radio, TV e stampa, organizzando corsi di ricamo e di artigianato di vario tipo, quali i prodotti fatti a mano come la conservazione di cibi e la cucina popolare, la pittura su seta e vetro, la lavorazione in ceramica e legno.
A fine pasto abbiamo potuto visitare un’esposizione di ricami e altri oggetti del loro artigianato. Fra le borse, i borselli, i cuscini e gli arazzi, particolarmente suggestivo mi è sembrato il ciondolo col ricamo di Handala di Naji al Ali, omino visto sempre di spalle, con le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo rivolto ai villaggi che è costretto ad abbandonare; egli mostrerà il suo volto solo quando potrà tornare a casa nella sua Palestina libera. Quanto lunga sarà l’attesa?
In aggiunta all’esposizione permanente in sede, la Women Cultural Society organizza, in collaborazione con altre associazioni, esposizioni al Comune di Jenin, al Villaggio globale in Giordania, al Centro Baladna di Ramallah, a Sabastia di Nablus ecc.
_ Fra le loro attività anche la creazione di una libreria, l’accoglienza di delegazioni e gruppi per uno scambio di esperienze e l’organizzazione di corsi di alfabetizzazione, patrocinati dal Ministero dell’Istruzione.
L’incontro con gruppi come il nostro, oltre al piacere di tessere nuove relazioni, farci conoscere la loro cultura, la difficile realtà che vivono e le loro modalità di resistenza, dà loro anche economicamente una boccata d’ossigeno.
Al ricamo di Jenin fa eco quello di al Twani, villaggio abitato da pastori nelle colline a Sud di Hebron, territorio dichiarato zona militare da Israele, lasciato senza servizi, soggetto ad espropri ed espulsioni.
_ Alla violenza dei coloni contro anziani e bambini, gli uni aggrediti mentre portano gli animali al pascolo e gli altri mentre vanno a scuola, {{le donne del villaggio rispondono col volersi unire in associazione per discutere dei loro problemi personali e familiari}}, ci dice Kifah nel suo racconto in arabo.
Avendo{{ ìl 50% degli uomini del villaggio osteggiato l’iniziativa}} le donne, determinate a conquistarsi un ruolo in famiglia e nella società, hanno intrapreso insieme attività di ricamo e tessitura.
_ Invitati, dopo aver condiviso un pasto frugale: una ciottola di minestra con legumi e del buon pane appena sfornato, a vedere i loro lavori, siamo entrati in una stanzina semibuia, dove borse, abiti, tappeti ecc. erano appesi al muro o posati a terra. Un fragile lume ci guidava nella scelta dei capi d’acquistare, mentre la dolce ed energica Kifah (in arabo “lotta”), calcolava il cambio della valuta e incassava.
Anche lei, come le donne di Jenin, è riuscita a trasmetterci delle forti emozioni e a farci capire come la donna palestinese, armata solo di buona volontà e forza morale, riesca a condurre egregiamente la sua duplice resistenza: per affrancarsi da un marito autoritario e per difendere se stessa e i propri figli dalla violenza dei coloni.
Alla nostra ammirazione per le ricamatrici di Jenin e di al Twani, si aggiunge il nostro apprezzamento per le amiche incontrate a Ramallah.
L’attività di ricamo delle donne lavoratrici del “[Palestinian Working Women Society->http://www.pwwsd.org/new/index.php]” (PWWS), fa da corollario alla loro azione politica femminile e femminista, sempre condotta sui due fronti, quello interno per scardinare il sistema patriarcale anche con interventi legislativi e quello esterno per neutralizzare la politica coloniale israeliana.
Il Centro Pastorale Melkita, dove confluiscono oltre trecento donne, provenienti dai villaggi attorno a Ramallah, cerca di rispondere – con corsi preparatori e affidamento del lavoro di ricamo e cucito, ad ognuna di loro – alla necessità di dover provvedere ai bisogni della famiglia, spesso privata dal sostegno dell’uomo, perché disoccupato, invalido o detenuto nelle carceri israeliane.
Credo di interpretare bene i sentimenti di ognuno/a nell’affermare che tutte queste donne, ci hanno trasmesso delle bellissime emozioni, attraverso il loro impegno e le relazioni che riescono a costruire.
_ I loro racconti ce le fanno sentire in grado di ridare alla famiglia quel senso di normalità, facendo di tutto per assicurare ai propri figli cibo, istruzione, cure mediche e una crescita serena, malgrado i limiti e le vessazioni cui sono quotidianamente sottoposti.
Questo loro modo di resistere all’occupazione militare israeliana che dura ormai da oltre 40 anni, senza riuscire, malgrado le sue tecniche brutali, a spegnere nel popolo palestinese la voglia di vivere, ci fa guardare al futuro con ottimismo.
_ Non lasciamole sole mentre ricamano il loro sogno di un futuro libero!
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