Omsa: se le calze sbarcano in Serbia, le operaie non sbarcano il lunario
E’ stupefacente che il sindacato emiliano insieme a quello locale, dichiarano di
aver appreso con stupore la decisione del patron della OMSA Nerino Grassi di
spostare la produzione delle calze in Serbia….Dall’anno scorso, infatti, [le operaie dello stabilimento fentino hanno dato vita ad
una protesta->https://www.womenews.net/spip3/spip.php?article6385] che le ha portate anche a presidiare i cancelli nel tentativo di non
vedersi portar via i macchinari che la proprietà ha trasferito a Castiglione.
Manifestazioni, iniziative, proteste, [boicottaggio dei marchi dell’imprenditore
mantovano->https://www.womenews.net/spip3/spip.php?article6193] (SISI; Philippe Martigonon, Golden Lady), coinvolgimento delle
istituzioni ed una vastissima rete di solidarietà, tramite la quale operaie e operai
hanno specificato molto bene i termini della scelta di Grassi e messo in guardia
anche gli altri dipendenti dei rischi che la delocalizzazione serba comporta, non
possono essere passati inosservati, anche se buona parte della stampa non ha
trattato a dovere una questione che investe in pieno proprio il mantovano, dove
Grassi ha stabiimenti a Castiglione, Solferino e altrove.
In pericolo per adesso c’è la sede di Gissi, ma non ci vuole molto a capire che il
re dei calzettai punta a mantenere in loco (come altri hanno e stanno facendo),
solo il reparto amministrativo, in quanto in Serbia ha assunto oltre 1200 operai (a
250 ? al mese…) e pure il trasporto viene gestito direttamente, con partenza
dall’altra parte dell’Adriatico.
Non molti mesi fa, in occasione delle numerose proteste e lotte dei lavoratori dei
calzifici dell’alto mantovano, non era isolata la voce del sindacato con cui si
sottovalutava la questione, aggiungendo che, tutto sommato, ciò poteva essere
positivo per il mantovano che ancora(!?!?) regge!
_ E si è visto… ed ancora una
volta c’è voluto l’effetto trascinamento scatenato dal padronato e del loro uomo –
simbolo Marchionne, per scoprire i mali che possono arrivare dalla Serbia.
La lotta delle operai OMSA ha messo a nudo la realtà produttiva italiana:
insensibilità di un padronato che può tutto, inesistenza dello Stato a cui non è
riservata più alcuna competenza, irresponsabilità e imnpunità garantita per chi
abbandona siti produttivi e redditizi per fare ancor più profitto, sfruttando
lavoratori, negando diritti, scatenando una lotta fra poveri e beneficiando dei
contributi che, a suo tempo, quello stesso Stato aveva elargito a piene mani, magari
anche per comprare quelle macchine che adesso vengono trasferite altrove,
rendendendo l’area fronte autostrada di Faenza un altro, ennesimo esempio di deserto
industriale.
Che la lotta dovesse avere quel respiro ampio che le 320 oepraie emiliane
chiedevano, al fine di far emergere le responsbailità di un capitalismo che sta
schiacciando una classe lavoratrice senza rappresentanza politica ed un sindacato
troppo spesso felice di portare a casa “il bicchiere mezzo pieno” (per i padroni)
senza operare una critica impietosa a questo sistema sociale, che porta ogni giorno
a nuove sconfitte, avrebbe dovuto essere il filo rosso di riferimento della lotta di
tutto il sindacato.
Nemmeno la proposta di un ipotetico acquirente dell’area faentina, è stata presa in
considerazione, giacchè Grassi pare nemmeno voglia vendere. Tutte a casa, gambe
tagliate senza pietà per mano del solito manager di turno, a Faenza come altrove,
in più di un’occasione, ha deriso e offeso le operaie che presidiavano i cancelli.
E’ troppo, dunque, affermare che data una simile situazione che per i lavoratori,
non migliorerà, occorre, per esempio, chiedere la nazionalizzazione della Fiat, un
corpo legislativo che blocchi trasferimenti di macchinari, impianti e beni
acquistati con fondi della fiscalità pubblica, oppure impedire che i le merci
prodotte all’estero (vedi il recente caso della BARILLA) riportino impunemente la
dicitura MADE IN ITALY, pena il sequestro e la revoca delle licenze?
Nessuna
“opposizione” ne parla nei tavoli, alle loro feste o cene private dove siedono al
fianco degli stessi padroni che licenziano e delocalizzano, magari insieme ai
notabili sindacali, agli ex presidenti rossi della Camera o ad ambizioni presidenti
di Regione: dovrà farlo chi intende rappresentare gli interessi della sola classe
che, oggi, di rappresentanza non ha. E i comunisti servono a questo.
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