Un giovane uomo ucraino, che da giorni andava ripetendo che
avrebbe ucciso qualcuno, è uscito di casa e lo ha fatto davvero: lasciato
dalla fidanzata da poco tempo, gonfio di rabbia e di rancore contro le donne, tutte, responsabili ai suoi occhi del dolore infertogli dall’abbandono, ha ucciso a pugni nel giro di pochi minuti una donna filippina di 41 anni, madre di due figli, che andava a lavorare, come ogni mattina, a Milano.Quante volte abbiamo sentito dire (o abbiamo detto, con rabbia e senza
riflettere) una frase carica di presagi nefasti, come ‘ora ammazzo
qualcuno’? Nel fraseggio della modernità abbondano espressioni violente con
simbologie aggressive, sessiste, omofobe, razziste senza che si faccia quasi
più caso al loro contenuto offensivo e pericoloso: la scusa è che nel mondo
violento che ci circonda, e del quale facciamo parte, è necessaria una
catarsi almeno nelle parole, e che la violenza verbale non è, nella
maggioranza dei casi, immediatamente legata all’azione violenta che pure
esprimono le parole che diciamo o che ascoltiamo.

Ma ieri mattina un giovane uomo ucraino, che da giorni andava ripetendo che
avrebbe ucciso qualcuno, è uscito di casa e lo ha fatto davvero: lasciato
dalla fidanzata da poco tempo, gonfio di rabbia e di rancore contro quella
donna che l’aveva ferito e contro le donne, evidentemente tutte per traslato
responsabili ai suoi occhi del dolore infertogli dall’abbandono, ha ucciso a
pugni nel giro di pochi minuti una donna filippina di 41 anni, madre di due
figli, che andava a lavorare, come ogni mattina, a Milano.

Unica colpa essere, appunto, una donna, per orribile coincidenza la prima
capitata a tiro dell’assassino che se l’è trovata davanti e ha dato sfogo su
di lei al suo odio.

In questo scenario di brutalità, abuso, ignoranza e dolore che ci sembra
arcaico e lontano mentre è proprio qui nella nostra quotidianità, impastato
con il sincopato e moderno presente c’è, una volta ancora nello sfondo un
dato incontrovertibile: sono sempre di più gli uomini, non importa se
giovani o maturi, italiani o di altri paesi, che non sono capaci di reggere
emotivamente il peso dell’abbandono da parte di una donna, considerando le
relazioni affettive e sessuali con l’altro genere un banco di prova della
loro virilità.

Se qualcosa va storto, specialmente nel caso in cui sia la donna a decidere
di troncare la relazione, essi non sono capaci di elaborare la ferita del
distacco, del rifiuto, e una pur dolorosa e umana vicenda sentimentale di
fallimento diventa un’ossessione, un’onta, una offesa insopportabile alla
propria presunta integrità virile, che è possibile sanare solo con una
escalation reattiva: l’insulto, la persecuzione, la violenza fino ad
arrivare all’annientamento fisico della colpevole, e, se non di lei in
persona, come in questo caso, in un suo surrogato.

Le pene d’amore celebrate dalle canzoni e dalle poesie di ogni tempo restano
lì, raggelanti presagi di sventura: come è possibile che l’amore, la
passione e le fortissime emozioni che tutti e tutte desideriamo vivere nella
relazione amorosa possano trasformarsi in disprezzo, vendetta, odio fino
all’assassinio?

E’ possibile, è realtà se non cambiamo modo di educare all’affettività e al
rispetto: mai dare per scontato che gli uomini abbiano chiaro che l’amore
non rende chi ama un proprietario e un padrone dell’amata; mai dare per
scontato che dietro all’emancipazione apparente delle giovanissime di oggi
ci sia una concreta consapevolezza del proprio valore e della inviolabilità
del proprio corpo e della sessualità. Possiamo parlare semplicemente di
raptus di follia (ieri tutti i tg titolavano così la vicenda) e rubricare
questo ennesimo episodio di violenza maschile contro le donne come un caso
isolato di pazzia?

Facciamo un passo indietro: qualche mese fa l’Airs (Associazione italiana
per la ricerca in sessuologia) rese noti i risultati di una ricerca dal
titolo *Dalle molestie sessuali allo stupro*, per individuare le principali
variabili all’origine della violenza sessuale. Le risposte allarmarono gli
stessi vertici dell’associazione, che affermarono: ”Fra i risultati che ci
hanno sorpreso e sconcertato maggiormente c’è questa sorta di
colpevolizzazione della vittima. Alla domanda 24 (“Secondo lei, le donne
sono spesso libere e ambigue sessualmente e ciò le rende alle volte
responsabili della violenza sessuale che possono subire”?) il 55,8% degli
uomini ha risposto affermativamente, come pure il 43% delle donne e il 75%
dei giovani. Dunque non stupisce troppo che poi – prosegue la ricerca- il
56% dei maschi pensi che, se le donne fossero meno provocanti, la violenza
sessuale diminuirebbe. La pensa così il 33% delle donne e il 74% dei
giovani”. Dal sondaggio emerge, inoltre, che per il 15,7% degli uomini e il
10% delle donne l’imposizione di un rapporto alla moglie o fidanzata non sia
violenza. Per questa percentuale di uomini non c’è nulla di sbagliato, e per
le donne non esiste motivo di ribellarsi. Ancora: sguardi, fischi e
atteggiamenti che mettono a disagio la vittima per il 50% degli uomini non
sono molestie, un’idea condivisa dal 43% delle donne. Che serve aggiungere
ancora, per avere la certezza che nella nostra cultura ormai è maggioritaria
l’opinione che l’aggressività, la misoginia e il sessismo di parole, sguardi
e allusioni esplicite sono da considerarsi normali e accettabili nelle
relazioni tra i generi e che un molestatore, anche solo a parole, è a
livello psicologico già un violentatore, e che poi l’escalation può anche
trasformarlo in un assassino, a seconda del suo squilibrio e della sua
fragilità emotiva?

In questo ennesimo caso di femminicidio colpisce il vano tentativo di una
donna di salvarne, purtroppo inutilmente, un’altra dalla violenza che stava
per esplodere.

La madre del ragazzo al mattino della tragedia ha cercato di fermarlo
intuendo che dalle parole si stava passando ai fatti: ha chiamato la polizia
appena lui è uscito di casa, temendo che le affermazioni del figlio
potessero diventare realtà. Non ce l’ha fatta.

Di fronte al lutto e alla disperazione nel quale ci immerge questo
assassinio non resta che continuare a dire, forte e chiaro, che se non si
rifiuta il paradigma della forza come fondativo delle relazioni non ci può
essere alcuna speranza di convivenza umana pacifica e feconda. Alla base di
questo percorso c’è la necessità di riconoscere la violenza sulle donne, in
ogni sua forma, come violenza primaria da sradicare. C’è bisogno di farlo a
partire dalla scuola elementare, nei luoghi di lavoro e di aggregazione, lo
si deve ricominciar a fare come società civile, come movimenti, perché una
cultura violenta contro le donne originerà, a cascata, modelli violenti in
ogni altra manifestazione del corpo sociale. Riconoscerlo è un’emergenza.