Ma che educazione diamo ai figli maschi? Sono allibita leggendo la
correzione che l’ultimo caduto in Afganistan ha apposto alla mancata
previsione (“beato te che non la vedrai”, la guerra) del nonno: “visto
che te te si sbaià”? La guerra come destino immutabile dell’umanità?Non sono così sprovveduta da non sapere quanti ragazzi di dichiarano, per lo meno a parole, pacifisti e quanti, indotti a “scegliere” la professionalità militare, lo fanno per semplificare la questione
lavorativa.
_ E so bene che nelle missioni all’estero non si va per
obbedienza agli ordini, ma per pagare il mutuo o potersi sposare.

Ma
mi sembra insostenibile che, dopo anni di educazione familiare e di
scuola democratica (almeno l’obbligo l’avranno fatto tutti), persista
la fascinazione malefica della forza e delle armi (ormai
qualitativamente superiori per capacità di potenza a qualunque
muscolatura umana, cervello compreso) e della fatalità delle guerre.

Veniamo sopraffatti da richieste di difesa della vita, perfino allo
stato nascente e neppure la Chiesa percepisce alcun dovere di
difendere la vita adulta addirittura nel rispetto delle regole del
traffico, ma soprattutto nella protezione dei figli, in particolare
maschi, dalla voglia di violenza che li conduce ad uccidere, anche per
mestiere.

Sono stata qualche anno in Commissione difesa, dove ero
andata per vedere come prevenire pratiche insensate in un settore
dello stato i cui impiegati esplicano un lavoro particolarissimo,
costituzionalmente previsto, ma non in contraddizione con i diritti di
cittadinanza.
_ Mi sono compiaciuta per la fine della leva,
“coscrizione” superata e dannosa perché “lavava il cervello” ai
giovani e li rendeva subalterni per sempre a qualunque ordine
bisognoso della loro obbedienza idiota.

I “volontari” oggi si assumono liberamente delle responsabilità: non
si può ritenere la missione – scelgo dall’antologia pubblicata dai
quotidiani oggi – “un’opportunità, un’avventura per prendere qualcosa
e portarla in famiglia”. Se fai testamento prima di partire, sai che
metti in gioco la vita. E non si può essere convinti che è “meglio
morire in piedi che vivere una vita strisciando”, perché tutti
possiamo vivere dignitosamente senza strisciare, anche il mendicante e
perfino il malfattore.

“Se la guerra è una merda, qualcuno deve pur
farla”: ma chi mai lo può sostenere nel 2011, quando le armi sono
telecomandate, si prevede l’arrivo del soldato-robot e si impiegano
gli uomini solo contro cecchini e kamikaze? E se uno sostiene che “se
devo morire, voglio farlo da leone, da eroe”, bisogna dirgli – anche
se non serve più – che, povero caro, chi ti ha istruito così ti ha
insegnato a morire da coglione (uso un’espressione non mia secondo la
terminologia militare).

La mitologia dei film western o la tv dei
serial killer contribuisce ad allevare bestie subalterne, non
cittadini responsabili.

La parola “nonviolenza” è ancora sottolineata
in rosso dal computer, non compenetra neppure le chiese che la
nominano, è invisa ai militari che non comprendono l’interesse di fare
davvero i conti con la violenza e i suoi antidoti.

Oggi, se al governo non avessimo, al ministero degli Esteri e della
Difesa, dei caratteristi da antico cabaret, le diplomazie dovrebbero
lavorare a tutto spiano per snodare le trame che sottostanno ai
conflitti prima che esplodano.

Forse non è il caso di precipitosi
ritiri da contrapporre ai precipitosi ingressi nella follia afgana, ma
non si può essere così vecchi culturalmente da morire per un onore
militare inesistente, dimenticando che la propaganda ti arruola per il
bene pubblico, nostro e altrui: se proprio sai di mettere a rischio la
vita, dì anche nel testamento che lo fai per pacificare, per costruire
case, scuole e ospedali, non per ritornare alla logica suicida della
scelta di campo contro il nemico.
_ Così è già “la guerra”, quella
deprecata dal nonno, che investirà anche i paesi chiamati civili e i
tuoi figli.