Pubblichiamo l’introduzione del volume “Storie di Ponte e di frontiere” realizzato dalla cooperativa sociale BeFree. Il libro parte dall’ esperienza maturata da BeFree all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria, e spiega nei dettagli i percorsi delle donne Nigeriane, costrette a prostituirsi nei bordelli di Tripoli prima di giungere in Italia e in Europa{{Perché questo libro …}}

Questo libro nasce perché l’esperienza maturata da BeFree cooperativa sociale all’interno del Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria (Roma) ci appare sempre di più come un patrimonio del quale non vogliamo e non dobbiamo essere le uniche depositarie.

Siamo convinte che la società civile, le Istituzioni, i colleghi e le colleghe degli Enti antitratta, i media, le scuole, debbano poter conoscere le storie che ascoltiamo, i problemi che incontriamo, le risorse che riusciamo ad attivare, e le vicende che stanno dietro/davanti/dentro i percorsi migratori delle persone che arrivano in questo Paese attraversando le geografie fisiche ed interiori proprie della tratta di esseri umani.

Tragitti dentro a circuiti definiti e rigidi che strangolano ogni aspirazione ad una vita migliore: la partenza è dalla miseria, il viaggio è dentro agli abusi, l’arrivo è nello sfruttamento, il ritorno è l’espulsione.

Siamo riuscite diverse volte a bloccare questo circolo vizioso, siamo il granello di sabbia che inceppa il meccanismo, siamo consapevoli di fare molto per le donne che riusciamo ad incontrare, e di non poter fare nulla per migliaia di altre.

Ed allora questo libro serve soprattutto a questo: a diffondere le informazioni sulle vittime della tratta per favorire un atteggiamento più accogliente ed empatico nei loro confronti, perché siamo certe che le chiusure, le esterofobie, il giudizio ed il disprezzo nascono dall’ignoranza, dalla paura di ciò che non si sa e dal quale ci si deve difendere …

Ma questo libro nasce anche da noi, che facciamo un lavoro indirizzato soprattutto ad affrontare la complessità degli interventi nei confronti delle donne che seguiamo, e lo facciamo standoci dentro, con vissuti complessi e questioni che riteniamo focali, e che sarebbe sbagliato abbandonare alla volatilità delle parole dette.

Parole scritte, allora. Che forse non saranno del tutto adeguate per far capire l’impegno e la passione che sottendono, ma che saranno il più possibile fedeli nel raccontare gli spunti, gli interrogativi, le competenze e le difficoltà emerse.

Ciò che sostanzialmente abbiamo fatto – e che consideriamo fondamentale – è partire da noi.
_ In questo senso, il Ponte del titolo è Ponte Galeria ma è anche simbolico di una miriade di ponti: tra le donne, tra noi, tra le donne e noi, ponti tutti diversi tra le diverse soggettività, e le Frontiere sono quelle geografiche che le migranti e i migranti attraversano, e quelle culturali che impediscono l’empatia e cristallizzano le differenze, e quelle intime che ci rendono difficile conoscere il nostro Io e dialogare con esso.

Siamo certe infatti che costruire competenze sul tema non consiste soltanto nell’acquisire know-how, ma anche nell’attivare processi di analisi delle proprie personali percezioni/implicazioni/reazioni, rispetto ad esso.

Differentemente da altre criticità/problematiche, infatti, il ragionamento sul problema della tratta e della prostituzione forzata coinvolge sfere profonde dell’identità e del vissuto personali, perché avviene nell’ambito delle relazioni e della identità sessuata, e suscita sovente giudizi e pareri che non prescindono da sistemi valoriali e gerarchici (uomo/donna, supremazia/sottomissione, diritto/dovere) profondamente e spesso inconsapevolmente introiettati dal sistema sociale, politico, culturale contemporaneo.

In buona sostanza, una serie di miti, stereotipi e paure rischia di ridurre la portata del fenomeno e di “stemperarne” l’aspetto di reato, che, invece, viene riconosciuto dalla giurisprudenza nazionale e da tutte le dichiarazioni, direttive e raccomandazioni sovranazionali/internazionali (UE, NU, ecc…).

Possiamo affermare che la mancanza di una scuola specifica e di un’impostazione metodologica scientifica per gli operatori fa sì che l’approccio alla tematica sia sovente volontaristico, assistenziale, permeato di buon senso e di buon cuore, connotato da una percezione di alterità e distacco dalle vittime o, al contrario, da anomale e non funzionali contaminazioni tra operatori e utenti, che possono arrivare in alcuni casi ad una vera e propria vittimizzazione vicaria, con grave nocumento per la stabilità emotiva di entrambi e, in generale, della relazione di aiuto.

Scrive Franco Prina, in una sua analisi del sistema degli interventi a favore delle vittime di tratta:

È facile constatare come raramente i soggetti che operano nel sociale e gli stessi responsabili delle azioni chiariscono ed esprimono, nella fase progettuale, a quale prospettiva teorica e a quale orizzonte di principi tecnico-metodologici conseguenti intendono fare riferimento. Né sono in grado spesso, anche a posteriori, di esplicitare quelli che, implicitamente, ispirano – come accade sempre – il loro agire .

Noi abbiamo colto e condiviso la constatazione di Prina, che afferma:

Sappiamo che questo rappresenta un limite frequente nell’agire sociale, quando non giunge in qualche misura ad essere rivendicato come tratto positivo (la prassi contro la teoria, l’esperienza contro l’astrattezza) e approccio vincente – in quanto “pratico” – nell’impegno verso le persone in difficoltà. Quasi che una forte motivazione, una disponibilità personale senza limiti ed una dose adeguata di buon senso siano sufficienti per sviluppare relazioni e produrre integrazione sociale in qualunque situazione e di fronte a qualsiasi problema ….

La nostra cooperativa lavora in ottica fortemente improntata al genere, e sceglie una modalità fortemente faziosa.

Prendiamo a prestito la definizione di Assunta Signorelli:

Faziosità: assumere il punto di vista di parte come chiave di lettura che permette di esplicitare il non detto, di far emergere quell’insoddisfazione sempre occultata e negata in nome di un complessivo che poi alla fine non accontenta mai nessuno. Ed è da un’ottica di genere che parole come accadimento, relazione, soggettività diventano altro, svelano significati insospettabili, entrano nel relativo del vivere quotidiano potendo così assumere alternativamente connotati non solo differenti ma a volte contrapposti.

La scelta di partire da noi ci ha portato a rilevare e ad affrontare molte contraddittorietà, e ci ha condotto a scontrarci con esse e anche fra noi, ma ci ha consentito di impostare il lavoro e la ricerca su un piano definito, di elaborare, o almeno abbozzare, una pratica.
_ Soprattutto, ci ha aiutato ad entrare in rapporto con noi stesse e a diventare più efficaci.

Pensiamo che dare valore a noi stesse equivale a dare valore al nostro lavoro e alle persone che seguiamo, una corrente calda e benevola di empowerment che tutto avvolge, un modo strutturato e condiviso per occuparci di quella che Leopoldo Grosso definisce “la dimensione della manutenzione di se stessi”.

Ed allora bisogna avere il coraggio di esprimere ed affrontare le risonanze e gli echi che le occupazioni del lavoro quotidiano (di questo specifico lavoro quotidiano) possono avere in noi.
_ Questo significa cogliere la sfida di una nuova definizione dell’operatore antitratta: non neutro, non tramite per accedere ad un progetto standard, ma complesso di storie, ricordi, aspirazioni e frustrazioni che si modulano differentemente e spesso inconsapevolmente nell’approccio con il target di riferimento.

Significa molto anche sul piano pratico, in realtà. Si crea e si ottimizza lo staff, che deve essere fisso, competente, formato e regolarmente supervisionato, come autorevoli fonti raccomandano.
_ Praticare la metodologia dell’ascolto, dell’automutuoaiuto, della circolarità e della sinergia significa dare valore all’equipe, ed evitare molti – certo non tutti – i fattori stressogeni.

Ma significa molto, a nostro parere, anche sul piano politico, togliere il focus unico sulle vittime di tratta e di prostituzione forzata.
_ Mettere in scena due spot: su loro e su noi.
_ Levar loro l’esclusiva di oggetto del linguaggio parlato e dell’intervento attuato.

Scendere noi dal piedistallo della soggettività, dal ruolo falsamente neutrale, da una connotazione ispirata soltanto all’efficacia/efficienza, dalla pratica direttiva e precettiva.

Questo libro nasce, infine, come primo prodotto della casa editrice [Befree- Sapere solidale->http://www.befreecooperativa.org]. Si tratta di un progetto al quale teniamo moltissimo, e attraverso il quale ci ripromettiamo di attivare un dibattito ampio e fruttuoso sui temi delle culture, delle appartenenze, dei generi, della Storia e delle Storie, di ciò che rende ciascuno unico e diverso, perché le differenze possano dialogare e siano praticati l’ascolto, l’accettazione, il rispetto ed il riconoscimento.

– {{Per informazioni}}: [befree.cooperativa@libero.it->mailto:befree.cooperativa@libero.it]