Che fine ha fatto la formazione psicopedagogica per chi insegna?
La pedagogia è morta. La psicopedagogia è morta. Viva la repressione.
Uno studente di 17 anni denuncia una professoressa che lo ha invitato ad abbandonare la scuola perché è un gay. I compagni da tempo lo prendevano in giro e lo picchiavano senza che gli insegnanti intervenissero in sua difesa. “Era nel mirino dei compagni. Fioroni invia gli ispettori.”, titola in sommario un quotidiano. Una dodicenne ha scritto nel diario di essere stata oggetto di molestie ripetute da parte di alcuni compagni e in particolare dei palpeggiamenti da parte di un coetaneo; e di suggerimenti di controllare l’abbigliamento da parte degli insegnanti. “Mi molestia e l’insegnante non fa nulla”, e poi, nell’ora di inglese, “lui entra in classe. Viene verso di me, io cerco di scrollarmelo di dosso, spingendolo contro il banco. La professoressa accusa me aspramente, mi dice che non dovevo farlo, perché il compagno poteva farsi male.”
I giornali quotidiani vi dedicano intere pagine e unanimi invocano {{misure repressive nei riguardi degli insegnanti}}. Sottolineando che anche la ministra Pollastrini ha dichiarato che occorre cambiare i programmi scolastici, per inserire corsi educativi di rispetto delle differenze sessuali, e severi provvedimenti nei riguardi dell’insegnante. E anche le associazioni omossessuali chiedono l’immediata identificazione dei responsabili. Per quanto riguarda il ragazzo gay. E per la ragazzina molestata dai compagni? Ancora provvedimenti severi nei riguardi dell’insegnante. {{Repressione, repressione uguale a, eventualmente, sospensione dall’insegnamento}}. A rincarare la dose ci pensa anche un illustre giornalista come Francesco Merlo che si chiede: ” perché questo preside e questi professori non hanno preso provvedimenti forti, decisivi, contro i ragazzi seviziatori e contro la collega sterminator? “ (la Repubblica, 27 luglio).
Naturalmente l’illustre articolista si dimentica della ragazzina molestata forse perché non è poi una novità a scuola come altrove. {{La violenza sessuale contro le femmine fa parte della cultura dei diritti della natura}}: gli istinti maschili, più che mai quelli dei maschietti, per raggiungere un buon livello di virilità, di “sfoghi” ne hanno pure bisogno.
Almeno la ministra delle Pari Opportunità la repressione la invoca per gli uni e per le altre.
{{Qualcosa è veramente mutato}} rispetto agli anni che hanno visto le associazioni di pedagogia degli insegnanti come il {{Movimento di Cooperazione Educativa}}, il fervore delle sperimentazioni della facoltà di Pedagogia di Bologna con il meraviglioso prof. {{Andrea Canevaro}} della Pedagogia Istituzionale, o dell’Università di Roma con{{ i neo vygotsckiani}}, eccetera. Ma anche il {{lavoro pedagogico femminista}} {{del femminismo della differenza di Verona}}, o il {{Laboratorio Psicopedagogico delle differenze di Brescia}}. In quegli anni dalla fine dei sessanta, per tutto il settanta e gli anni ottanta, anche nei sindacati scuola si insisteva sulla {{necessità di dare una formazione psicopedagogica agli insegnanti}}, oltre che didattica. Sembra che ora ci sia soltanto una, per così dire, grande sensibilità ad avvertire i problemi per denunciarli. Denunciano i genitori, denunciano gli stessi soggetti dei soprusi. E nessuno che si chieda se le denunce dei genitori non esprimono spesso anche il bisogno di allontanare da sé un fastidioso senso di impotenza educativa scaricando la responsabilità sugli insegnanti. Mentre la denuncia degli studenti sembra indicare una sfiducia negli adulti, tout court.
All’inizio degli anni ottanta insegnavo in una scuola media dell’Emilia-Romagna e avevo un ragazzino, in seconda media, che soffriva di una sordità bilaterale non accettata dai genitori. Il disagio dei genitori diventava il suo rifiuto della sordità che si manifestava con il togliersi l’apparecchio acustico all’entrata dalla scuola. Un giorno, dopo la ricreazione, alcune ragazzine mi avvicinarono per “denunciare” i palpeggiamenti del compagno. Al rientro in classe indissi “{{un’assemblea}}” senza svelare la confessione appena accolta. Dissi che dovevamo parlare di lui perché stava mostrandosi ripetutamente aggressivo, perfino con qualche insegnante.
Ogni alunno/a doveva scrivere su un cartellone appeso alla lavagna, una frase. Così per alcuni turni. Insomma una sorta di {{brainstorming}}. Il ragazzo seguiva, corrucciato, in silenzio. Qualcuno scrisse che F. si arrabbiava molto con il prof. di italiano perché spiegava parlando in fretta, come se di lui non gliene importasse nulla. Ma poi qualcuno scrisse che si sentiva inferiore perché era sordo. E infine qualche ragazzina che molestava le compagne perché, come maschio, così facendo si sentiva superiore alle femmine.
F. ad un certo punto si alzò, prese un pennarello e scrisse sul cartellone che si sarebbe ritirato dalla scuola per farsi prete, ma come “uccelli di rovo”. E tutti risero. E rise anche lui perché la TV stava dando a puntate la storia di un prete che si era innamorato, diventava anche cardinale, ma poi, se non ricordo male, sceglieva di stare con la donna del cuore.
Nessun politico, nessun ministro, nessun giornalista avveduto o rappresentante dei gay ci ha detto che forse c’è un {{grave deficit di formazione psicopedagogica}} degli insegnanti, ovvero non è sufficiente la formazione didattica e burocratica per riempire registri e quella per fare dei test. Fermo restando che {{anche gli insegnanti e le insegnanti fanno parte di una cultura ancora fortemente patriarcale}}. Perché pretendere che siano dei santi, dei diversi, nel senso di una non si sa quale finezza e purezza del pensiero e dell’agire?
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