Perché la legge sul biotestamento è brutta e arrogante
Il 12 luglio la Camera ha approvato, con pochissime modifiche, il disegno di legge che regolamenta il fine vita. In autunno il passaggio al Senato. Poi, forse, la raccolta di firme per un referendum abrogativo “Signor Presidente, care colleghe e cari colleghi, ritengo che per il credente la sua vita appartenga a Dio. Chi non ha la fortuna di avere la fede è convinto che la sua vita appartenga a lui stesso. Ma su una cosa entrambi concordano: nessuna persona o gruppo di persone ha il diritto di interferire nel rapporto fra loro e la loro vita” (Applausi di deputati del gruppo Partito Democratico). Così comincia l’intervento in aula di Antonio Martino, ex ministro, tra i fondatori di Forza Italia e di estrazione liberale. La discussione verte sulla legge sulle direttive anticipate, oggetto di un acceso dibattito fuori e dentro il Parlamento ormai da molti mesi, e recentemente tornata di attualità dopo la ripresa, in questi giorni, delle votazioni sugli emendamenti alla Camera.
Le parole di Martino potrebbero essere un dettaglio del tutto irrilevante, se non fosse che descrivono puntualmente il clima di un Parlamento che dovrebbe essere laico e legiferare per tutti i cittadini senza considerare le credenze religiose. E rimandano l’atmosfera in cui si redige una legge che dovrebbe abbandonare le premesse dogmatiche, come l’appartenenza a Dio della nostra vita.
Sarebbe infatti augurabile che la convinzione del credente rimanesse nella sfera privata dei singoli cittadini, tanto più se quei singoli cittadini hanno il potere di legiferare sulle nostre esistenze e tanto più se quel Dio è il Dio del cattolicesimo, e non genericamente un Dio. Così come sarebbe augurabile lasciare fuori dalle aule parlamentari il commento sulla sfortuna del non credente, fallacemente convinto di poter decidere della propria vita, ovvero convinto che il principio dell’autodeterminazione sia uno dei principi della nostra democrazia – solo apparentemente liberale.
La considerazione dell’importanza della non interferenza sulle vite – su cui tutti concordano secondo Martino – è poi contraddetta dalla legge in questione, considerando che la legge così com’è ora interferisce nelle nostre vite pesantemente e senza legittime giustificazioni.
Prima di entrare nel merito di alcuni nodi fondamentali di questa proposta di legge, ricordiamo a cosa servirebbe un testo sulle direttive anticipate: a normare la possibilità di dichiarare oggi i trattamenti cui voglio consentire per un domani in cui non potessi più esprimerli, a causa di un incidente o una malattia. Un testo del genere dovrebbe garantire la nostra libera scelta, prolungando temporalmente uno strumento che esiste già: il consenso informato. È bene anche ricordare che ogni volta che firmiamo un consenso informato stiamo redigendo le nostre direttive anticipate – anche se il tempo che passa tra la firma e il trattamento sanitario è perlopiù molto breve.
Il testo di legge in discussione è un perfetto esempio di come una legge in merito non dovrebbe essere scritta. Men che meno approvata. È quasi sarcastico che pur chiamandosi “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento” sia una legge che ripropone un paternalismo venato di moralismo, calpesta il senso profondo del consenso informato e svuota le dichiarazioni anticipate di volontà. Ma andiamo per ordine.
Prima di tutto ricordiamo che i cardini concettuali e giuridici di una legge sulle direttive anticipate sono l’autodeterminazione sanitaria e il consenso informato. Cardini che promuovono e si fondano sull’idea che è il paziente, in ultima analisi, a decidere se e quale trattamento seguire. Questo anche perché la decisione non è soltanto medica e tecnica, ma profondamente segnata dai nostri valori e dalla nostra stessa idea di esistenza (decidere di sottoporsi a una chemioterapia non è una decisione solo medica, ma determinata dall’idea che abbiamo della sofferenza, della nostra autonomia, del nostro futuro). Perciò nessun altro – a meno che non sia delegato da noi – può scegliere al nostro posto, scavalcandoci per il nostro bene (paternalismo) o perché segue una legge morale stabilita da chissà chi e superiore al nostro giudizio morale (moralismo).
Il testo che torna in discussione in questi giorni segna una inversione rispetto a questa idea: il primo sintomo di questa inversione è rappresentato dal carattere non vincolante delle direttive. Paternalistico, certo, ma anche un vero e proprio insulto verso chi vuole decidere di un futuro in cui potrebbe non essere in grado di esprimere un parere. Oggi redigo un documento in cui scrivo, per esempio, che non voglio essere rianimata in caso di grave ipossia. Oggi redigo un documento in cui scrivo che, anche se domani non potrò rivendicare il mio diritto a non essere rianimata perché sarò incosciente, dovrebbe valere quanto ho deciso e dichiarato oggi.
Questo documento è carta straccia, perché non è vincolante e il medico può decidere di ignorarlo. Può deciderlo anche se magari sono arrivata al Pronto Soccorso e nessuno mi conosce, perciò non si può nemmeno invocare la fragile difesa che il medico conoscerebbe le mie vere volontà – questa non è certo una alleanza terapeutica, ma una decisione presa dal medico ignorando il paziente. Si presume che la volontà di tutti debba essere la rianimazione, mostrando un’arroganza e una violenza che dovrebbero essere state eliminate per sempre dalla pratica medica.
Si ribadisce a più voci che la legge è stata spinta sull’onda dell’emozione della vicenda di Eluana Englaro. Qui si annidano due gravi difetti: il primo è che una legge non dovrebbe essere scritta travolti da emozioni. Inoltre il continuo richiamo a Englaro rischia di confondere se usato come una cantilena quasi priva di contenuto. Quanti conoscono nei dettagli la storia di Eluana Englaro? Che senso ha esasperare un caso specifico, che peraltro con questa legge non ha nulla a che fare?
Uno dei nodi più controversi, per esempio, riguarda lo statuto della nutrizione e idratazione artificiali (NIA). E qui siamo costretti a ripetere per l’ennesima volta considerazioni banali. La legge sostiene che sulla NIA il paziente non può esprimere un parere perché non sarebbero trattamenti sanitari ma sostegno vitale. La mossa, ingenua e disonesta, è di sfuggire al principio costituzionale che nessun trattamento sanitario possa essere imposto (con l’eccezione del trattamento sanitario obbligatorio). Ma la mossa è fuori fuoco: infatti nemmeno un trattamento non sanitario può essere imposto!
Ad essere ulteriormente grave è il totale disinteresse per quanto dichiarano le società mediche in merito: la NIA è un trattamento sanitario a tutti gli effetti (si veda a questo proposito la posizione della Società Italiana di Nutrizione Artificiale e Metabolismo). Ulteriore elemento: per avviare una NIA bisogna firmare un consenso informato. Ma ci siamo resi conto che questo principio è schiacciato dall’intenzione di non rispettare le decisioni individuali.
Se questa disegno di legge diventerà legge, la nostra autonomia faticosamente conquistata subirà un grave vulnus e le direttive anticipate saranno solo una caricatura dell’espressione della nostra volontà.
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