Al di là delle risposte ufficiali
Riceviamo dalla senatrice Silvana Pisa (Sinistra democratica – commissione difesa del Senato) e pubblichiamo questo intervento apparso su “aprile on line” in merito ai recenti avvenimenti in Afghanistan.La soluzione tempestiva del rapimento dei due militari italiani riempie tutti di sollievo anche se resta la preoccupazione per il soldato gravemente ferito e il lutto per l’accompagnatore afgano morto.
Altrettanto tempestiva l’azione del ministro della Difesa, Arturo Parisi, di riferire alla Camera su quanto accaduto: il fatto che i militari facessero parte dell’intelligence ha giustamente consigliato di far tacer sul nascere possibili tormentoni mediatici. Per questo stesso motivo, breve asciutta e sobria è stata la ricostruzione dei fatti del ministro.
Il rapimento è avvenuto a Shindad e qui occorre aggiungere {{una dato che Parisi ha taciuto:}} che gli agenti rapiti e liberati operano assieme agli americani nella base USA di Shindad, al confine con la provincia di Farah, che pur facendo parte del quadrante regionale del comando italiano, è sotto comando USA. E già questa intricata geografia “istituzionale-geografica” la dice lunga sulle possibilità di dispiegamento di una strategia di pace efficace.
{{Parisi ha anche parlato di scelta obbligata}} a proposito dell’intervento militare – con vasto dispiegamento di mezzi e con il contributo degli alleati – per liberare i rapiti. In questo concordiamo: il fatto che si trattasse di soldati, tanto più con incarico riservato, li esponeva a rischi grandissimi che è stato doveroso evitare. Il ministro ha poi confermato il mantenimento delle regole d’ingaggio e la destra (Fini e Boniver) hanno insistito per la necessità di un ampliamento delle stesse.
Al di là delle risposte ufficiali di Parisi {{resta il dubbio:}} {{l’Italia a che tipo di operazione partecipa? Con quali Caveat reali?}}Perché dobbiamo riconoscere che la nostra partecipazione alla missione ISAF a comando Nato è sempre meno di stabilizzazione e di institution building e sempre più di guerra. Questo succede perché il contesto afgano è inequivocabilmente diventato uno scenario di conflitto: perché come Nato partecipiamo dalla scorsa primavera all’operazione Achille che è operazione di guerra; perché le nostre armi (per esempio gli elicotteri Mangusta definiti “cbt” combat) sono da guerra; perché non è vero che i nostri soldati si limitano alla sorveglianza del territorio o a difendersi se attaccati (secondo le regole d’ingaggio a suo tempo votate dal parlamento e invocate da Parisi nella sua relazione), ma partecipano ad operazioni di guerra. Il 10 agosto a Baghdis, i nostri Mangusta hanno effettuato un “fuoco d’intimidazione” che ha registrato otto caduti! La “confusione”, nella zona di operazioni tra ISAF-Nato (sempre meno “stabilizzatrice”) e Enduring Freedom, combat, è stata denunciata a luglio anche dallo stesso Parisi e da D’Alema, in seguito a diversi bombardamenti che hanno provocato molte vittime civili. Questa denuncia è rimasta senza esito.
{{Il senso della permanenza}} dei nostri soldati è riposto sempre più nel solo appartenere ad alleanze internazionali (la Nato si gioca la sua “credibilità”), ma questo basta a giustificare il rischio che corrono i nostri soldati e la quantità di soldi spesi?
Perché in Afghanistan la situazione è di gran lunga peggiorata (ostilità crescente della popolazione nei confronti delle truppe straniere, escalation di violenza, corruzione, aumento del narcotraffico, peggioramento condizioni di vita). È chiaro all’opinione pubblica mondiale, in maggioranza contraria alla permanenza delle truppe in Afghanistan, che {{in quel paese non si difende la pace ma si tutelano gli interessi geopolitici degli Stati Uniti}}. Il fine -sconfiggere il terrorismo e migliorare la vita degli afgani- non poteva essere raggiunto con l’uso della forza.
Lo scorso anno, poco prima di Natale, {{nel Consiglio supremo di Difesa,}} convocato dal presidente della Repubblica, si erano convenute alcune cose importanti: che si dovevano mettere in campo le forze armate nel caso si trattasse di missioni “controllate” dall’ONU (vedi Libano) oppure di operazioni gestite dal comando delle Forze di Difesa Europee; che le aree di intervento dovevano concentrarsi sul vicino Medio Oriente e sul Mediterraneo. {{Invece il Ministro Parisi}} ieri mattina, all'”Alenia Graduate School” di Bologna, dopo avere detto che la partecipazione militare in Afghanistan è “per contribuire a mantenere la sicurezza e la pace nel mondo”, ha specificato che {{i confini della patria non coincidono con quelli geografici ma sono globali}}, con una visione troppo simile a quella minacciosa di Bush-senior “difendiamo gli interessi degli USA in ogni parte del mondo”.
{{La soluzione non può che venire dalla politica.}} I talebani hanno proposto una trattativa e Karzai si è detto disponibile: questo è un dato importante a cui la Nato -se volesse veramente la pace- dovrebbe dare appoggio; o almeno lo dovrebbero fare l’ONU ed i paesi della UE. La richiesta di {{conferenza internazionale di pace}} – a suo tempo appoggiata oltre che dall’Italia, dalla Merkel e da Chirac – dovrebbe inserirsi in questo spazio. Occorre che l’Italia {{nel prossimo dibattito all’ONU di novembre}} la riproponga come mezzo per far cessare la guerra.
L’occupazione militare, che a 6 anni di distanza non ha conquistato “cuori e menti”, deve cessare ed essere sostituita da una forza di polizia internazionale dell’ONU e occorrerebbe che le forze occidentali, invece di basi militari e bombardamenti, si occupassero di {{“comprare la pace”: human rights for food}}. Questo andrebbe nel senso di una stabilizzazione pacifica, che è la cosa di cui l’Afghanistan oggi ha più bisogno.
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