A proposito di cura
Pubblichiamo l’intervento di Maria Grazia Campari all’incontro “A proposito di cura: una trasformazione radicale nelle relazioni, nella politica, con la natura” tenutosi a Firenze lo scorso 24 ottobre.
Il mio ragionamento prende avvio da alcune considerazioni svolte da Alisa Del Re (“Inchiesta operaia e lavoro di riproduzione”, 2013; e “Dossier cura” in Leggendaria settembre 2014) relativamente alle aspettative sociali cui molte donne rispondono nel dedicarsi alla cura, anzi, secondo la definizione da lei proposta, alla riproduzione degli individui.
L’autrice nota che le qualità femminili di sensibilità, tatto, devozione -attribuibili almeno in parte a condizionamenti socio economici- vengono spesso travasate nel lavoro per il mercato. Anche secondo me l’attitudine alla “cura” si rivela quale elemento di femminilizzazione assai utile all’assetto capitalistico/patriarcale del mercato.
Questo aspetto è tornato recentemente all’onore delle cronache per le dichiarazioni dell’amministratore delegato della Microsoft Nadella il quale, interrogato su eventuali consigli da rivolgere alle donne che, anche impiegate ad alto livello in grandi complessi industriali, non trovano il coraggio di chiedere un aumento di stipendio, ha risposto: “Non devono chiedere l’aumento, ma devono avere fiducia che l’aumento arriverà, a condizione che lo meritino. Le donne che non chiedono hanno più forza. E’ un buon karma che prima o poi girerà a loro favore.”
Tralasciando argomenti scontati come le specificità religiose e culturali del personaggio, vorrei svolgere una riflessione che si basa su confronti intercorsi fra donne nell’ambito dell’Agorà del Lavoro di Milano.
Anche dai racconti di vita di molte partecipanti (femministe e non) è risultato che spesso l’atteggiamento femminile di cura si espande verso il corpo d’impresa a causa di rapporti in senso lato sentimentali che molte donne sviluppano nei confronti dei progetti lavorativi che le impegnano.
La conseguenza di questo slittamento, spesso involontario e poco percepito, è una tendenziale donazione di sé, delle proprie risorse cognitive e di socialità al di fuori di qualsiasi compenso economico, quasi il compenso fosse rappresentato dalla possibilità stessa di svolgere quel lavoro partecipando all’impresa. Si è constatata una tendenza alla gratuità (perniciosa) anche nel lavoro per il mercato.
Una delle spiegazioni possibili è che le donne siano grate e appagate dal fatto di non essere più soggette alla secolare esclusione dal lavoro retribuito, dalle professioni liberali, dalla vita pubblica. In qualche modo, solo in parte indagato, la propensione alla cura può corrispondere anche allo sforzo di conciliare lavoro per il mercato, maternità, accudimento di anziani e malati, impegno sociale, miglioramento del contesto che favorisce il piacere di vivere.
Quanto resta, però, di questo buon vivere al soggetto femminile multitasking?
Secondo me, è tempo di affrontare il quesito ponendosi anche nella prospettiva di analizzare a fondo se e quanto il patriarcato abbia potuto, nel tempo, colonizzare la mente delle donne (femministe e non).
Intanto va precisato (lo ricorda Ina Praetorius nel saggio “Penelope a Davos”, Quaderni di via Dogana 2011) che quando si parla di cura ci si riferisce prioritariamente alle funzioni che l’uomo non ha alcun piacere di svolgere, quindi delega da sempre alle donne. Ne consegue, secondo me, che quello della cura sia assai spesso un desiderio oblativo/adattativo che risponde alle aspettative e propizia approvazione sociale.
Sociale, di quale società, mi chiedo. E mi rispondo: di quella attuale, maschilista-patriarcale.
Di questo tipo di società mi sembra giusto, al contrario, sollecitare la più profonda disapprovazione dato che il mio desiderio è di contrastarla con ogni mia capacità, con ogni mezzo in mio possesso.
La mia opinione sulla cura si è spesso confrontata con l’obiezione, ricorrente, della scelta femminile, della autodeterminazione delle donne in ambito sia privato che pubblico: le donne desiderano e scelgono di curare le relazioni, la politica, il mondo. Ma non è chi non veda che si tratta quantomeno di scelte a contenuto assai differenziato. Utilizzare per scelte tanto differenziate il termine indifferenziato di cura, mi pare arbitrario e, soprattutto, svincolato dal pensiero del contesto attuale che registra ancora dosi massicce di sfruttamento e oppressione maschile.
Si opera in tal modo una rimozione dei rapporti sociali ed economici fra i sessi, a tutto vantaggio di una concezione individualista delle scelte esistenziali. Percepisco una analogia fra ideologia liberista e glorificazione della scelta individuale: entrambe poggiano su una pretesa di libertà svincolata dal contesto dei condizionamenti economici, sociali, politici.
Mi convince un concetto espresso da Rossanda nel suo intervento “Femminismo e politica, una relazione tempestosa” (in “Donne politica utopia” il Poligrafo 2013): a proposito delle virtù lenitive proprie della femminilità, conciliazione e amorevolezza osserva “… se non proponiamo un’alternativa, siamo agli emendamenti”. Giusto emendamenti che, a mio parere, non riescono a spezzare l’ordine androcentrico, ma ci incastrano in senso simbolico e materiale.
Poiché questo incontro si svolge a Palazzo Vecchio, sede del Comune di Firenze, vorrei svolgere una riflessione rapida sul senso che mi pare venga attribuito da molte donne alla cura della polis, un senso che mi sembra bene illuminato nel saggio di Ina Praetorius “Penelope a Davos”.
Secondo la narrativa ragionata del poema omerico proposta dall’autrice, Penelope nella stanza della tessitura in relazione con altre donne resistenti, riesce a disfare l’ordine dei Proci e a ricostruirne un altro, differente. Tuttavia, non mi sembra questo un ordine segnato da donne consapevoli che si mettono in gioco là dove si gioca la scena pubblica. Si tratta sempre dell’ordine del patriarca “giusto e legittimo”, si tratta quindi di un ordine che si regge in equilibrio instabile in attesa del titolare del potere famigliare e sociopolitico.
Infatti, una volta arrivato, Ulisse è l’unico titolato a imporre l’ordine della polis, valido per tutti gli itacesi, donne e uomini. Il comportamento che Praetorius reca ad esempio non mi appaga, al contrario mi porta con la mente alle femministe istituzionali esperte in emendamenti, votati alla insignificanza.
Loro, come Penelope, non risulta proprio che intendano creare un ordine femminile del discorso nello spazio dell’agire fra uomini. Non un ordine femminile e neppure una mediazione fra ordini in conflitto: esattamente come nella stanza della tessitura che è un luogo di buon vivere fra donne, separato dalla polis su cui, in definitiva, non esercita alcuna influenza. Penelope partecipa delle prerogative regali come moglie del re e madre del principe ereditario, in un bozzolo confezionato dal patriarcato accettato come valido.
Sia lei che le sue sostenitrici, pur coraggiose, non arrivano a imprimere un segno di differenza sul destino della polis attraverso la loro esperienza ventennale di relazioni fra donne. Resta da chiedersi perché mai persino in un caso considerato ancora oggi esemplare, le acquisizioni femminili di un ventennio di resistenza (ce ne saranno state) restino mute, non producano l’inizio di un percorso in cui avanzare insieme, mettendo in campo conflitto e mediazione fra desideri e pratiche esistenziali differenziate di donne e uomini.
Secondo me, nelle relazioni private e in quelle politiche gli esempi finora noti di benvivere non servono ancora a stravolgere il quadro dell’esistente, che pure non ci soddisfa.
Bisogna cercare ancora, allacciando relazioni più consapevoli, agendo sulla leva di una profonda insoddisfazione critica, lontana da qualsiasi sospetto di appagamento.
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